Occhi, cuore e mente. Per mezzo di questi, da dietro la macchina da presa, Ermanno Olmi, scomparso nella notte di domenica all’età di 86 anni dopo una grave malattia, è riuscito a coinvolgere lo spettatore facendo vibrare le corde più profonde dei meandri inesplorati dell’animo umano. “Torneranno i prati” non è quello che, propriamente, si definirebbe un film di guerra e, allo stesso tempo, si rivela molto più di un film sulla guerra. Un Maestro del cinema italiano racconta la Grande Guerra secondo la prospettiva del dramma privato di un manipolo di soldati, prendendo come unità di misura il microcosmo della trincea. Altopiano di Asiago, fronte nord-orientale, poco prima della disfatta di Caporetto del 1917. Sepolti sotto quattro metri e mezzo di neve, in uno scenario naturale soltanto apparentemente fiabesco, gli uomini impiegati in un avamposto d’alta quota, dopo gli ultimi sanguinosi scontri, vivono in condizioni estreme. Olmi miniaturizza la realtà della guerra e la condensa nell’agonia e nel trascorrere di una sola nottata: giunge l’ordine di guadagnare una postazione strategica per spiare la trincea austriaca. Come un antropologo il regista, che firma anche la sceneggiatura, scandaglia l’animo umano, ispirandosi liberamente a “La Paura” di Federico De Roberto e alle migliaia di testimonianze di anonimi soldati. Carteggi, componimenti e scritti che hanno lasciato un’impronta letteraria indelebile, a prova del fatto che, nonostante il rischio, la sofferenza e la tragicità delle azioni belliche, la guerra uccide uomini ma non i loro sentimenti.
LA GRANDE GUERRA. Sicuramente dietro un ritmo lento e un intreccio narrativo non particolarmente avvincente, complesso e canonico, è facile individuare una metafora che, al di là del particolare inquadramento storico, può risultare valida per ogni guerra. Risulta troppo semplice, retorico e ritrito parlare oggi di quanto siano importanti la memoria e il ricordo: “Torneranno i prati” è la dimostrazione che dietro un concetto astratto come la memoria, intesa come atto dovuto, si palesa un qualcosa carico di sentimento. Non è certo stata casuale la scelta di realizzare, in occasione del centenario dell’entrata in guerra del nostro Paese, un film sulla tragedia umana che la Grande Guerra ha costituito, con gli oltre quindici milioni di morti. Un anniversario che è stato celebrato e onorato con fanfare, bandiere e grandi discorsi, senza che sia stato sciolto il nodo dell’ipocrisia. Olmi presenta un racconto di uomini, che non si limita a toccare la sfera emotiva nella sua intensità ma che costringe lo spettatore alla riflessione. Sebbene i fatti siano realmente accaduti, la narrazione non vuole assurgere a verità storica, bensì porgersi come racconto evocativo, seppur condizionato dallo stato di allucinazione che la dura realtà della guerra provoca. Con tinte opache, i soldati sembrano avere sembianze spettrali: fantasmi sommersi dalla nebbia, dall’angoscia e dalla neve. La straziante atmosfera claustrofobica e sudicia della trincea, con le finestre/feritoie e i sacchi di sabbia, unitamente al senso di precarietà che affligge il manipolo, demistifica la convenzione e il falso mito dell’atto di sacrificio per la propria Patria. Una grande bugia, e inganno, quella dell’amor patrio, che troppi giovani ha illuso, spingendoli a rispondere eroicamente alla chiamata alle armi. Insomma, ragioni ben diverse da quelle che oggi spingono il singolo contro il singolo, in una macchina dispensatrice di odio, riducendo il tutto al semplice atto materiale: premere il grilletto, uccidere, azionare un ordigno esplosivo o quant’altro. Appare evidente che lo scenario dipinto, di aspra condanna degli orrori di guerra da parte del regista, stride con la frequente ipocrisia delle commemorazioni ufficiali. Olmi non si abbandona a rabbie e collere antimilitariste ma tenta di riformare l’immaginario collettivo legato ai conflitti armati e lo fa in un modo singolare ben lontano da “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick, da “Uomini contro” di Francesco Rosi o da “La Grande Guerra” di Mario Monicelli.
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IL RACCONTO DEL CONFLITTO. La perdita dell’identità, di ciò che contraddistingue e salvaguarda l’individualità, è altro tema centrale del film. Soldati che riacquistano il proprio nome solo in occasione della corrispondenza epistolare. Solitudine, alienazione, abbandono, e quindi disperazione, angoscia e tormento: soltanto alcuni dei campi d’indagine che attribuiscono una tensione emotiva degna di nota. Un galleggiare di sentimenti acuito da una scelta registica inconsueta: monologhi e primi piani degli attori, che guardano direttamente in macchina da presa e si interrogano. Lo spettatore è chiamato a immedesimarsi, a condividere il dramma, a provare pietà e indignazione, a commuoversi. E l’esperienza unica di una sala cinematografica semideserta, così come la visione collettiva, contribuisce senza dubbio a creare un’empatia unica. Olmi non costruisce un prodotto confezionato dall’industria del cinema commerciale ma traduce in 80 minuti di immagini l’impotenza dell’uomo di fronte a certi eventi, condannando il tradimento perpetrato nei confronti di milioni di giovani e civili, morti senza sapere il perché. Il “tenentino” del film, interpretato da Alessandro Sperduti, scriverà alla madre di essersi ritrovato coinvolto in una guerra «che immaginava ma che non conosceva, in cui gli ideali perdono significato nella sua giovinezza». Con un atto di “obiezione di coscienza” la guerra viene ripudiata e la riflessione è l’unico modo per chiedere scusa alle vittime di un conflitto assurdo, ingiusto, e causa di dolore. Lo spettatore non si trova di fronte a una trama tradizionale – bensì destrutturata e smaterializzata – e la finzione filmica presenta un innovativo approccio documentaristico alla verità. Lampade a petrolio, rancio, posta, foto, stoviglie: è il dettaglio a fare la differenza.Tra stenti fisici e morali, il manipolo di “militi ignoti” si trova a doversi confrontare con ordini militari insensati e criminali – che porteranno al massacro – «concepiti da un ufficiale di stato maggiore seduto nella propria poltrona» e a soggiacere alla conseguente lacerazione causata dal conflitto interiore. Sguardi spenti, quelli del maggiore (Claudio Santamaria), del capitano (Francesco Formichetti), dell’attendente (Camillo Grassi), del “dimenticato” (Niccolò Senni), del sergente e del caporale. La trincea, nella guerra di posizione, è diventata casa e i commilitoni membri della nuova famiglia. I gradi nelle mostrine non contano più nulla e a essi qualcuno rinuncia; le mogli a casa dimenticano (per necessità) e tradiscono; azioni coraggiose ed eroismi suicida permettono di ottenere una licenza e 10 lire in premio; un soldato si toglie la vita per non andare incontro al destino di bestia da macello; la tristezza impedisce di cantare. Il conducente di mulo, interpretato da Andrea Di Maria, dirà che «cantare è scelta di cuore, più forte di ogni scoppiettata». E tenere alto il morale delle truppe risulta quasi impossibile quando l’unica direttiva gradita è quella di casa. Anche coloro che vi faranno ritorno «si porteranno dentro la morte che hanno conosciuto e si sentiranno dei sopravvissuti». Quelle dolorose immagini rimangono impresse nella mente di ogni uomo al fronte. Una visione intimista della guerra e delle sue contraddizioni caratterizza un racconto crudo, lucido e toccante.
MORTE E SPERANZA. Nei sogni di nessun uomo c’è la morte, eppure questo ha costruito la gabbia della guerra. A Olmi va riconosciuto il merito di aver fatto parlare la coscienza di quegli uomini costretti nel medesimo purgatorio dell’esistenza. È assente la minima traccia di spettacolarizzazione e la disumanità viene posta in primo piano. Volti spaesati e funerei, tra sangue e ferite, sono solcati dalle lacrime. La percezione del tempo rimarca l’angoscia che affligge i soldati: paura, terrore, pensieri e malinconia. In lontananza risuona il ruggito dei mortai e la narrazione avviene tra bisbigli e sussulti. La morte è compagna di trincea. Si sente il respiro ansioso degli uomini e i lunghi silenzi riescono a essere quanto mai eloquenti. Olmi procede per immagini, coadiuvato da un’eccellente fotografia e da un efficace montaggio. Viene così resa la straziante e rassegnata attesa, di un attimo che, imprevedibile, può risultare fatale. Il nemico, invisibile, non compare mai eppure è avvertito vicinissimo: i razzi fanno sentire il fiato sul collo. E, di fronte al dramma, l’uomo recupera un rapporto simpatetico, pacifico e rasserenante con la natura, ai limiti della trascendenza. Per bocca degli stessi soldati viene, infatti, denunciata, accusata e contestata l’assenza di Dio nel conflitto. Al punto che morire e ricongiungersi alla terra e ai prati è visto come l’unico modo per riscattare la propria dignità. La montagna incombe nel buio della notte, un larice appare dorato (per poi essere infuocato da un’esplosione) e la luna piena che campeggia in cielo è l’unica vera fonte di speranza. Lepri, volpi e topi, i campanacci, la fisarmonica e i canti popolari rimandano a un universo arcadico e onirico apparentemente sereno, sebbene quei paesaggi mozzafiato siano teatro di orrori. Altra scelta degna di nota è la predominanza del bianco e nero, con colorazioni enfatiche e occasionali a rimarcare il contrasto cromatico tra l’aspetto apparente dei soggetti e ciò che questi sentono interiormente. Una splendida e dolce colonna sonora, firmata da Paolo Fresu, fa da corredo al processo immaginifico.
IL POTERE DELLA MEMORIA. Olmi realizza un film: rende vividi i ricordi sbiaditi tante volte raccontati dai nostri nonni e bisnonni, avvicinandoci a un passato e a eventi ormai lontani un secolo. Nel silenzio della sala cinematografica il dramma ha ripreso consistenza. I dettagli hanno dato vigore a pagine e a interi capitoli di libri di storia. Il linguaggio del grande schermo ha prevalso sul nozionismo scolastico, dimostrando come le cronache ufficiali trascurino ancora una volta la sfera dei sentimenti. Un’esperienza emotiva profonda che traspare anche dall’interpretazione, un po’ teatrale, degli attori. Olmi inneggia alla dignità e alla bellezza dell’esistenza umana: sulle terre che hanno ospitato le trincee torneranno i prati, l’erba rinverdirà. Torneranno i prati non va tradotto in “dimenticare”, cancellando il sacrificio delle vittime. Il regista ripropone il valore e la necessità del ricordo. La pace farà rifiorire i prati e con questi rifiorirà anche la speranza, sancendo il ritorno alla vita e alla luce dopo l’oblio della guerra. Torneranno i prati è una silenziosa e spirituale preghiera per i caduti del primo conflitto mondiale, nella speranza che l’uomo, prima o poi, non commetta più gli stessi errori. In poche parole, Olmi scioglie ogni riserva riguardo la propria visione della guerra, che si staglia contro le immagini di repertorio che appaiono nel finale. Non a caso, al tempo della circuitazione della pellicola nelle sale italiane, un rispettoso silenzio si protraeva anche al termine dei titoli di coda. Nessun commento: la reazione causata dal turbamento di fronte al dramma della guerra.