Tutti insieme appassionatamente. Tutti presenti i partiti di sistema al Forum Ambrosetti di Cernobbio, pronti a portare avanti l’agenda Draghi. Letta, Calenda, Meloni, Salvini, Tajani, Conte. Tutti alleati, tutti concordi su sanzioni, armi, bollette. Ricordiamo tutti la frase di Mario Draghi: «Scegliete i condizionatori o la pace?». Nonostante la situazione, e forse proprio per i tanti fronti di crisi, dalla guerra ai prezzi delle fonti di energia, sino al rialzo dell’inflazione, l’Italia ha scelto la via delle sanzioni.
Le sanzioni alla Russia hanno innescato non solo un aumento dei costi energetici, ma anche dei beni alimentari. Bollette energetiche che triplicano, creando le condizioni di una inflazione galoppante, gravano su aziende, lavoratori, famiglie e pensionati. Il costo dei carburanti ha raggiunto punte mai toccate, senza peraltro essere giustificato dal rapporto del costo del petrolio al barile, facendo intendere in maniera chiara che a monte ci sono speculazioni che il governo Draghi non ha neanche tentato di arginare, ben conscio invece di poter fare cassa prelevando proporzionalmente Iva e accise dal portafoglio dei cittadini. Difficile sostenere quindi che Draghi fosse la soluzione per un disastro che ha contribuito più di altri a creare.
Sull’energia poco o nulla è stato fatto, salvo un inconcludente “safari del gas” in Paesi in cui gli impianti sono ben lontani dall’essere operativi. Basti menzionare il Congo, dove nell’estrazione del gas, Eni è in società con la russa Lukoil, orfana del presidente che pochi giorni fa è “volato” dalla finestra di una clinica di Mosca. Oppure l’Angola, dove il gas non è stato proprio trovato e comunque, anche qualora ci fosse, non c’è l’ombra di un’infrastruttura o, peggio ancora, il Mozambico, dove l’Eni ha già venduto il gas a British Petroleum. Un capitolo a parte, quello dell’energia elettrica: non possiamo importare corrente dalla Francia perché la metà delle centrali nucleari è in manutenzione, quindi ci mancano 40 Terawatt.
Con Draghi, alla fine, siamo rimasti senza pace, senza luce e quest’inverno pure al freddo, con l’inflazione inarrestabile e la recessione alle porte. Per far fronte alla crisi energetica hanno avviato il nuovo racconto sul modello del Covid. Faremo qualche sacrificio. Spegneremo le luci e staremo al freddo. Magari servisse solo questo. Le aziende che chiuderanno non riapriranno dopo qualche mese. Le catene produttive quando saltano non si rimettono in sesto dall’oggi al domani. E questo è il vero dramma.
Ma ci salverà il “Piano di risparmio gas relativo al settore civile, abitativo, residenziale, sia pubblico che privato” del ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, che prevede da 20 a 19 gradi per gli stabili con riscaldamento centralizzato e un’ora in meno di copertura. Si conta di ottenere – mediante misure di minima riduzione delle temperature del riscaldamento, l’utilizzo di combustibili alternativi per limitati periodi e l’utilizzo ottimizzato dell’energia – risparmi variabili dell’ordine tra 3 e 6 miliardi di metri cubi di gas in un anno. L’obiettivo è quello di spostare l’accensione del riscaldamento a novembre. Sia per le utenze autonome che per quelle centralizzate, oltre che per tutte quelle statali. Escluse scuole e ospedali. Anche lo spegnimento sarà anticipato a marzo. Nelle aree d’Italia in cui il clima è più clemente si pensa a una riduzione di due gradi. Toccherà poi alla polizia locale con schema a campione verificare il rispetto dell’abbassamento della temperatura. Come se fosse normale in un Paese civile e democratico nel 2022.