La co-portavoce dei Verdi Eleonora Evi rimette il mandato e lo fa in modo rumoroso: «Non intendo continuare a ricoprire il ruolo di Co-portavoce femminile che, nei fatti, è ridotto a mera carica di facciata. Mi dimetto. Non sarò la marionetta del pinkwashing». Parole durissime quelle della co-portavoce nazionale di Europa Verde e affidate ai social. Corredate dall’accusa ai Verdi di essere un partito personale e patriarcale.
Mi dimetto. Non sarò la marionetta del #pinkwashinghttps://t.co/Y4MNl2wUkL
— Eleonora Evi (@EleonoraEvi) November 30, 2023
Oggi parlare dei diritti delle donne è facile, praticarli e rimuoverli molto meno. Tra quote rosa, linguaggio di genere, luoghi comuni, condizioni pratiche e materiali dell’esistenza (cure familiari, lavoro domestico) l’emancipazione concreta delle donne è strada ancora per lo più da percorrere. E forse da ripensare, almeno in parte. Il rischio è quello di cadere nel pinkwashing.
Crasi delle parole “pink” (rosa) e “whitewashing” (imbiancare o nascondere), il termine allude a una pratica, piuttosto comune nel marketing come nella politica, di sposare una causa femminista nella con lo scopo di “comprare” l’interesse degli elettori o consumatori più attenti alle tematiche sociali e aumentare il consenso o le proprie vendite. Una sorta di captatio benevolentiae orientata alla logica del profitto e al desiderio di nobilitare la propria immagine e brand reputation, distogliendo spesso l’attenzione da questioni e dinamiche eticamente discutibili, coperte, appunto, da una ipocrita “pennellata” di rosa ad effetto.
Il termine nasce sulla scia del greenwashing, fenomeno simile negli intenti che ha per oggetto una finta sensibilità nei confronti delle tematiche ambientaliste, sempre allo scopo di ottenere un ritorno economico e di immagine. Fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld a coniare la parola “greenwashing” nel 1986, per alludere alla pratica adottata da alcune catene alberghiere di invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani facendo leva sulla finta motivazione dell’impatto ambientale del lavaggio della biancheria, quando risultava evidente che alla base dell’operazione ci fosse un intento puramente economico.
All’inizio degli anni Duemila, il termine è stato preso in prestito e adattato a una questione tutt’altro che irrilevante riguardante l’universo femminile: la lotta al cancro al seno. È più precisamente la Breast Cancer Association, nella figura di un suo membro storico, Barbara Brenner, a coniare il termine “pinkwashing”, per smascherare campagne pubblicitarie e azioni di marketing di alcuni brand, soprattutto di cosmetica, che approfittavano della nobile tematica per indurre i consumatori a preferire i loro prodotti, allo scopo di ottenere maggiori guadagni e distogliere l’attenzione dalla scarsa qualità degli ingredienti utilizzati.
A suscitare tale preferenza nei consumatori doveva essere un piccolo fiocchetto rosa applicato ai vari prodotti, assurto a simbolo della lotta al tumore al seno, inaugurando così la pink ribbon culture, che fu però all’origine un’operazione di appropriazione indebita sempre a scopi di marketing e di lievitazione del fatturato. Fu Charlotte Haley, una signora americana colpita dal cancro al seno, nel 1991 a scegliere di fatto questo simbolo: iniziò a cucire piccoli fiocchi color pesca a cui allegava una cartolina per denunciare i pochi fondi destinati dal governo alla lotta contro la malattia, che poi distribuiva ai negozi locali. L’iniziativa fu apprezzata da un noto brand di cosmetica, che si offrì di acquistare i suoi fiocchi. La donna, che comprese il reale intento dietro alla mossa, si rifiutò. La cosa non impedì ai potenziali investitori di prenderne l’idea, modificando il colore dei fiocchi da pesca a rosa, e di dare origine alla cultura, tuttora in voga e non sempre animata da intenti poco trasparenti, del fiocco rosa associato alla lotta contro il cancro al seno.
È in quest’ottica che all’epoca Barbara Brenner coniò il termine pinkwashing, ideando anche una campagna dal nome di “Think before you pink”, per indurre i consumatori ad approcciarsi in modo più critico e consapevole a queste operazioni e le aziende a garantire maggiore trasparenza e responsabilità sulla questione.
Il fenomeno del pinkwashing è parecchio diffuso. I temi che approccia sono differenti e tutti attinenti alla questione femminista, in particolar modo al tema dell’emancipazione femminile. Non tocca però solo grandi nomi, brand e aziende del mercato internazionale, ma anche la politica. In questo caso risulta evidente quanto lo scopo sia prettamente ideologico, per mettere in atto una vera e propria ripulita della propria brand reputation, nella maggior parte dei casi per distogliere l’attenzione da dinamiche e posizioni più che discutibili. Una sorta di dirottamento ideologico per ottenere consensi, sperando di fare cadere nel dimenticatoio questioni spesso contrarie a quanto sostenuto.