Ha la saggezza dell’anziano, che trae dai proverbi lezioni di vita. Ha il naso del contadino, che fiuta il vento per capire come cambia il tempo. Ha le genuinità e l’ingenuità del fanciullo, che ancora si stupisce e si emoziona. Ha la curiosità e il coraggio del ragazzo, che portano a nuove conoscenze, ad ardite imprese. Ha l’istinto e la carnalità dell’animale. Il virtuosismo e la destrezza del genio. È Antico, nel nome, nell’attaccamento alle tradizioni, alle radici, ai valori, alla madre-terra. È moderno, nel disco, nella ricerca sonora, nelle contaminazioni, nel dare voce e anima ai tamburi. Il “tamburo parlante”, così è definito Alfio Antico, tra i protagonisti giovedì 6 settembre al Centro Zo di Catania della serata di apertura del festival “Ricci Weekender”.
LA VITA COME UN ROMANZO. «Alfio Antico è un patrimonio dell’umanità, dovrebbe essere riconosciuto dall’Unesco», scherzava Carmen Consoli. Ma, nello stesso tempo, diceva una grande verità. Perché il musicista lentinese è l’ultimo aedo di una cultura ancestrale, le cui origini si perdono nel tempo. In lui c’è la purezza di un mondo incontaminato, nella sua musica la limpidezza del suono, la maestosità della natura, la forza dei sentimenti. “Quando la musica sorge dalle viscere della terra, ordina il caos ed espelle le impurità. La natura parla e le cose prendono il loro posto nel mondo. Prima del linguaggio, la mano che danza sulla pelle del tamburo compie il prodigio della nascita del suono, come la mano del fabbro quando percuote il metallo o quella del pastore quando ritma il tempo della festa e della veglia”. È questo Alfio Antico, artista naif che esprime sentimenti profondi, elementari, autentici (il sentimento del sacro, della vita, dell’amore, della morte), armonizzando i colori della natura nella ritmica grave dei tamburi.
La sua vita sembra essere un romanzo verista di Verga. A far da scenografia non il mare di Acitrezza, ma le montagne dell’entroterra siracusano. «Facevo u pecuraro, non me ne vergogno – sorride, scuotendo la sua fluente chioma bianca – Mi sento un ignorante, ma non volgare. E resto ancora legato alle mie origini. Quando torno in Sicilia vado a trovare il vecchio massaio, il contadino, il pastore. Sono legato alla terra e alla mia terra. Anzi è lei che si è legata a me. C’è un rapporto ancestrale, quasi erotico. È un “radica” che mi dà bellezza, musica, verità».
Un’infanzia povera, dura, costretto a crescere in fretta per dare una mano alla famiglia. L’asprezza di una gioventù solitaria, trascorsa sulle montagne, a specchiarsi nel sole, ad ascoltare il vento, il suono della pioggia o delle 400 campane del suo gregge. Per rifugiarsi nello scialle della nonna che con il suo magico tamburello scacciava i mostri della solitudine e della paura.
«Fu mia nonna a farmi innamorare del tamburo – riprende il racconto – Mia nonna si chiamava Lucia, nonna Ciuzza per noi. Suonava il tamburo quasi vergognandosi, perché una donna non suona questo strumento. Un anno prima di morire, era molto malata, chiamava mia mamma in continuazione e mia madre per farla zittire le passava il tamburello. Lei si metteva a suonare e io restavo incantato davanti a lei. Ero stupito: c’era dolcezza, c’era il battere del cuore. È questa la mia Sicilia, non è quella delle fasce rosse dei siciliani che imitano i siciliani».
DA BENNATO A SCAPARRO. Poi l’emigrazione. Come tanti siciliani. Per necessità, ma anche per stare più vicino al padre malato. «Ero buono con gli animali, mi affezionavo agli agnellini, curavo la capretta incinta e quando andavo a letto non pensavo che alle tre mi dovevo alzare per mungere. Per me era un gioco, l’unico che mi potevo permettere. Non lasciai quella vita perché faticosa, ma per motivi familiari – sottolinea – Andai a Firenze da mio fratello e lì entrai in contatto con un’altra realtà. Ero affascinato da quella città dove c’era musica nelle strade, nelle piazze. Lavoravo come muratore a 700 lire all’ora, in nero, e poi la sera andavo a suonare in Piazza Signoria. Lì mi scoprì Eugenio Bennato che mi volle con i Musicanova. Era il 1975. Ero felice. Scrissi a mia madre: “Ora guadagno bene, ti aiuterò”. E mia madre si vantava con tutti di suo figlio. Ero orgoglioso».
Chiusa l’avventura Musicanova, nasce la leggenda di Alfio Antico e dei suoi tamburi. «Tamburi da 70 cm a 1,20 metri di diametro. Ne possiedo una ottantina – si vanta – Li ho realizzati tutti io. Sono ricamati, disegnati in punta di coltello. Mi metto a ricamare quando non trovo l’ispirazione per una canzone. Il più importante è il “Barulè”, baronessa, che era il nome di una pecora alla quale ero molto affezionato e che morì per malattia. Il mio pastore mi chiese di buttarla via, io invece conservai la pelle, la lavorai e la trasformai in tamburo. Fu il primo di una lunga serie». E poi spiega: «C’è differenza tra pelle di pecora e di capra: la prima produce un suono basso, la seconda invece acuto». Perché oggi il lentinese sarà pur una leggenda della musica, ma a 61 anni resta ancora legato al suo mondo di pastori.
«Ho poche parole per descrivermi: sono molto umile e sono in possesso di quanto mi basta per essere felice. Amo quello che mi circonda: l’aria, il vento, la montagna. Conosco la vita pastorale, un mondo che non c’è più e che io racconto portandolo in scena, dandogli dignità culturale, creando migliaia di sonorità, non solo ritmiche, ma anche armoniche. Suono il tamburello che molti considerano cultura minore, ma che, per me, è maggiore».
Eppure nel suo palmarés ci sono collaborazioni importanti, che gli hanno aperto le porte sulle scene più ambite della musica e del teatro. «Con Fabrizio De André collaborai in “Nuvole” – ricorda – Era una persona riservatissima, di poche parole, un intellettuale. Mi chiamò per suonare in “Don Raffaele”. Io gli risposi che tutti avrebbero potuto suonare in quel brano, che era una semplice tarantella. Fabrizio insistette: “Ma io voglio il tuo pollice”. Nacque così quel ta-ta-boum. È un brano nel quale mi rispecchio molto, soprattutto nei colori delle percussioni. Poi sono venute le collaborazioni con Lucio Dalla, Vinicio Capossela e tanti altri».
Poi il teatro: con Albertazzi, Scaparro, Roberto De Simone. «Il teatro mi ha dato molto. Fondamentale è stata l’esperienza con Maurizio Scaparro in “Vita di Galileo”. Davanti a me si è aperto un nuovo mondo, più mio, privato. Io impersonavo lo scemo del popolo, che prendeva la Bibbia a colpi di tamburo per scacciare il diavolo. Ho capito che ogni suono poteva riempirsi di magia. Quando cammino devo stare attento a come mi muovo, devo controllare il corpo per creare determinate sonorità. L’abito ti costringe a cambiare anche il modo di parlare, la musica diventa un fatto fisico, corporeo. Un brano non è mai uguale a quello della sera precedente, perché la giornata di oggi non è uguale a quella di ieri».
CULTURA ANCESTRALE. Ragiona con la saggezza del contadino d’un tempo, quello che guardando il cielo sapeva predire il tempo dell’indomani, che conosceva i “ritmi” della terra, delle coltivazioni. «Non sono un poeta, m’ispira la natura – ammette lui stesso con quell’umiltà che è la sua forza – Io studio il vento, la pioggia. Il suono della pioggia è sempre diverso. Nella mia musica c’è ironia, c’è raggia, ma anche molto romanticismo… Forse le coccole che mi sono mancate tanto da piccolo». Ma c’è anche l’orgoglio di chi ha conquistato con fatica e con sudore vette impervie: «L’assolo e questo tipo di tecnica percussiva li ho introdotti io nella musica etnica. Non c’è alcuno al mondo che riesce a imitare i miei tamburi».