La lotta per colmare il “gender gap” impegna le istituzioni nazionali ed europee da diversi anni. Nella sfera pubblica si è fatta sempre più strada la consapevolezza di una disparità di genere tra uomo e donna in svariati ambiti. Tra questi, di primaria importanza appare la tematica della penuria di figure femminili nei ruoli politici chiave, quelli che contano davvero nell’economia del decision-making di una nazione. Non a caso, l’ultima riunione dei grandi della terra, svoltasi nella straordinariamente bella cornice di Taormina in Sicilia, ha partorito una “gender road map”, delle linee guida sul tema, in cui è possibile leggere come l’aumento della rappresentanza femminile nei ruoli politici di vertice sia una priorità da perseguire e raggiungere entro il 2022. A che latitudine si colloca il nostro paese nella mappa dell’uguaglianza di genere?
LA NECESSITÀ DI NUOVI PARADIGMI CULTURALI. A livello mondiale, secondo l’analisi annuale del World economic forum sul Global Gender Gap, nella graduatoria diffusa nel 2016, l’Italia si colloca al 50° posto su 144 Paesi (era al 41° nel 2015, 69° nel 2014, al 71° nel 2013, all’80° nel 2012, al 74° nel 2011 e nel 2010, al 72° nel 2009, al 67° posto nel 2008, all’84° nel 2007 e al 77° nel 2006). Dati non confortanti, dunque, che dimostrano plasticamente come gli sforzi legislativi rischiano di rimanere sterili se non accompagnati da altrettanti sforzi in ambito culturale. Interventi normativi come l’introduzione delle cosiddette “quote rosa” o della “preferenza di genere” potranno sì contribuire a migliorare le percentuali di qualche statistica, ma siamo davvero sicuri che contribuiscano in maniera efficace alla riduzione delle discriminazioni? Il punto, a modesta opinione di chi scrive, non è premiare le donne, così come gli uomini, in quanto tali. Il punto è permettere, a parità di condizioni con gli uomini, alle donne che valgono di poter costruire un percorso di successo caratterizzato dalle stesse prospettive che avrebbero le loro controparti maschili. Una rivoluzione culturale, insomma, che sottragga la politica ai paradigmi maschili che l’hanno sempre caratterizzata per traghettarla su campi finalmente neutrali e scevri da pregiudizi di genere. Una rivoluzione copernicana che elevi la qualità invece che la quantità. Da dove cominciare? Certamente dall’educazione impartita nelle scuole, sviluppando nuovi metodi didattici che non si limitino alle mere battaglie grammaticali così care a Laura Boldrini.
LA NUDA VERITÀ DEI NUMERI. L’unico miglioramento davvero significativo che l’Italia ha raggiunto negli ultimi anni è il numero di donne presente in parlamento, rispettivamente il 31,3% del totale alla camera ed il 29,6% del totale al senato. Risultati quantitativi, appunto. Tuttavia, nessuna donna nella storia repubblicana ha mai ricoperto, per esempio, una delle tre cariche più importanti dello stato (Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica e Presidente del Senato). Nella corrente legislatura, alla Camera sono presiedute da una donna solo 2 Commissioni permanenti su 14, lo stesso accade in Senato. In aggiunta, solo due donne (su 20 regioni) rivestono la carica di Presidente della regione (in Umbria e Friuli Venezia Giulia). Minore rilievo ha la presenza delle donne a capo dei partiti politici: in Italia nessuno dei principali partiti politici è guidato da una donna e anche in Europa si registra un modesto 19%. I numeri appena citati divengono ancora più sproporzionati quando ci si sposta nella parte meridionale della penisola, a riprova di una problematica caratterizzata da profonde radici culturali che non è possibile sradicare con la semplice arma legislativa. Per rimettersi al passo di altre realtà molto più avanti sui temi della disparità di genere in politica, come ad esempio i paesi scandinavi, l’Italia non può non puntare su una rivoluzione copernicana qualitativa e culturale.