Anni Cinquanta. Praticamente l’alba e l’ascesa dell’iconica e immortale Scuderia Ferrari nel Campionato del Mondo di Formula Uno, ma anche la più fatale decade nella storia delle corse automobilistiche. Mentre le prime sfreccianti auto da corsa rappresentavano i limiti dell’ingegno e dell’abilità umana, i piloti del team vivevano ogni curva costantemente in bilico tra la vita e la morte a 165 km/h. Al centro di tutto l’universo modenese c’era Enzo Ferrari, imponente – e ingombrante – figura delle corse automobilistiche e patriarca del cavallino rampante, che si era spinto a sognare la velocità come nessun altro. Anche quando ciò poteva mettere a serio repentaglio la vita dei fidi e talentuosi appartenenti al proprio circolo. E, tra la rigida concorrenza all’interno della sua squadra, due delle stelle più brillanti, Peter Collins e Mike Hawthorn, decidono che la loro amicizia è importante quanto vincere la prossima gara. “Ferrari: Race to Immortality” racconta le rivalità, la storia degli amori e delle perdite, i trionfi e le tragedie dei più coraggiosi e decorati piloti della rossa in un’epoca irripetibile e dimenticata in cui, durante la settimana, era tutto una Dolce Vita mentre nel weekend un lancio di moneta risultava bastevole per stabilire chi dovesse vivere o morire.
LA LEGGENDA DI UNA TORMENTATA DECADE. Stupendo, avvincente, romantico e brutale. Il docufilm, diretto da Daryl Goodrich, è un gioiello imperdibile – tanto per gli amanti dei motori quanto per i giovani appassionati di F1 – che ripercorre con filmati d’epoca gli anni più competitivi, difficili e spregiudicati non soltanto della storia di Ferrari ma anche dell’intero circus: interviste e testimonianze di protagonisti e comprimari si sovrappongono a storiche rarissime restaurate immagini di archivio in cui Enzo Ferrari resta leitmotiv e commentatore d’eccezione (la fonte è un’intervista rilasciata a Enzo Biagi nel 1980), mentre il regista ricostruisce i trionfi e le indimenticate tragedie della Scuderia, la grande amicizia nata a bordo pista tra Collins – rimasto vittima nel 1958 di un incidente durante il Nürburgring – e Mike Hawthorn – morto l’anno successivo in un incidente stradale a Guildford appena tre mesi dopo il ritiro ed essere stato incoronato campione. Leggende di uno sport e icone di una generazione: divi eleganti, sprezzanti del pericolo, belli e dannati. L’inedita rumorosa colonna sonora di ruggenti cilindri fa da efficace accompagnamento alle imprese epiche cavalleresche di un grande marchio, in una rappresentazione romantica che alimenta il mito di uomini al tempo idolatrati quasi come gladiatori che – impensabile ai giorni nostri – vivevano le loro gesta sportive e automobilistiche fianco a fianco con il costante spettro di una valorosa morte, per un banalissimo errore proprio o altrui. Un decennio che – solo per fare un esempio – finì per mietere ben trentanove vittime (ben quattro all’anno), senza contare i numerosi spettatori coinvolti. Eroi che correvano su auto piene di cavalli ingovernabili, finendo spesso disarcionati o sbalzati fuori come nelle antiche giostre medievali. Ma parliamo di fuoriclasse – al volante di un’intensa ma breve stagione – come Juan Manuel Fangio, e degli sfortunati Luigi Musso, Eugenio Castellotti, Alfonso de Portago e i già citati Collins e Hawthorn. Una lunga riflessione su i rischi del mestiere e fatali imprese che rimandano al presente. Anche se oggi certo risulterebbero irripetibili e improbabili gesti di cavalleria sportiva come quello di un giovanissimo Peter Collins che, di fronte alla possibilità di vincere il primo titolo personale, cede a Fangio (quest’ultimo l’anno seguente sarebbe poi ritornato alla rivale Maserati) la propria monoposto per permettere al “Maestro”, rimasto senza la propria Lancia-Ferrari D50 in seguito a rottura dello sterzo, di giungere alle spalle di Stirling Moss e di vincere il quarto titolo mondiale. Ma, in un’avvincente ora e mezza c’è spazio anche per il coraggio, l’incoscienza, il cameratismo e le parole delle compagne di vite.
ENZO FERRARI, UN AMORE INCONDIZIONATO. A non uscire perfettamente indenne dalla testimonianza documentaristica è la figura del Drake, patron della casa automobilistica che, con grande cinismo, alla morte di Eugenio Castellotti, dopo aver espresso il proprio cordoglio per il tragico evento, si premurò di sincerarsi con lo staff su come “ne fosse uscita” l’auto. Una profonda passione e una tragica storia personale hanno fatto sì che la Scuderia diventasse tutta la sua famiglia. Dipinto da alcuni come un manipolatore, un subdolo dittatore, un incredibile individualista, nonché convinto assertore che gli italiani «sono capaci di perdonare ogni cosa, anche il furto, tranne il successo» e sostenitore del motto «più li metti sotto pressione e più veloci correranno». La predilezione verteva sui talenti d’oltremanica, giovani benestanti, temerari e bon vivant. Non a caso non era vista particolarmente di buon occhio l’amicizia tra i piloti, che rischiava di smussare l’alimentata competizione, o “distrazioni” sentimentali dal pianeta corse. Era l’ambizione a essere fomentata in ogni modo: quattro veicoli per cinque piloti e a contare davvero era sempre l’ultima gara. Basta qualche frammento audio delle domande semplici, acute e provocatorie di Biagi, capaci di incalzare l’interlocutore, per far confessare all’anziano imprenditore la spregiudicata ambizione e l’amore incondizionato per la velocità, per la competizione, per il pericolo. Senza indulgenze di sorta o timore reverenziale, a uscirne è il ritratto di un uomo complesso, controverso, contraddittorio, forse un po’ indulgente sulle proprie responsabilità: non poteva esistere ‘sfortuna’ ma solo una serie di coincidenze e di ‘errori’, nella convinzione di aver fatto in vita solo quello che gli piaceva fare; anzi, «consolato dal pensiero che tutto ciò è capitato di fare non abbia mai nuociuto a nessuno». Probabilmente non la pensava così Mike Hawthorn, ritiratosi anche per problemi di salute dopo aver perso il suo migliore amico e aver vinto il campionato del mondo. Anche a lui non toccherà miglior ventura in seguito a un’uscita fuori strada, non in pista ma come un qualunque pilota incauto o inesperto.
UN’INTERA FASCINOSISSIMA EPOCA rivive in un brillante documentario che ricostruisce con rigore e fedeltà il circus dei gentlemen drivers. Non è necessario essere patiti di Formula 1: Daryl Goodrich, con quanto mai vivide immagini di repertorio, restituisce un’atmosfera adrenalinica oggigiorno definitivamente superata a vantaggio della sicurezza, della tecnologia, di uno smodato ricorso all’elettronica e a discapito dell’elemento umano. Non soltanto un percorso cronologico di vittorie e sconfitte: viene tratteggiato il connubio tra rischio e fascino che avvolge la figura del pilota unitamente ad appassionanti e accurati ritratti dei protagonisti, campioni in pista e non solo. Con notevole materiale umano e narrativo a disposizione, il regista britannico riesce a emozionare seppure con una semplice struttura a capitoli suddivisi per anno, riuscendo a mitigare pagine oscure del mondo delle corse con i momenti di vittoria e scene adrenaliniche del grande sogno immortale targato Ferrari. A Goodrich non serve una chicane di contrapposta direzionalità e raggio contenuto, posizionata a metà di un lungo rettilineo, perché non ha la necessità di rallentare la velocità del prodotto: tutto procede secondo le regole senza alcun escamotage visivo o comunicativo. La storia è storia, nitida e definita in soli 90 minuti. Il vero paradosso è che sia servita una regia inglese per celebrare un mito made in Italy.