Una notte tempestosa e otto amici che si ritrovano, costretti da tuoni e lampi, in una sala da ballo, un luogo della musica e della danza che, con il passare delle ore, si riempie di storie e drammi privati, emozioni, oggetti, musica, pianti, amori e liti, diventando all’occorrenza una sala d’attesa e un ristorante in cui gli otto protagonisti – in un turbinio di mariti, mogli e amanti – si ritrovano, come nelle parole di Woody Allen, in un “girotondo di piccole anime che sempre insoddisfatte girano e girano intrappolate nell’insoddisfazione cronica di una banale vita borghese”. La scena vintage è semplice e l’espediente è funzionale: un bancone di un bar, una zona dove due poltrone creeranno un letto, due tavolini accostati per poter mangiare tutti insieme e poi riprendere le lezioni di ballo. Nella sua staticità l’ambiente – intimo ed elegante – è sfondo ideale per un frenetico e intenso intrecciarsi di relazioni clandestine e divorzi in attesa del sopraggiungere dell’alba. E sono due le coppie alle prese con le difficoltà della vita coniugale. Sally e Jack danno una notizia inaspettata: hanno deciso di separarsi. Judy ne rimane profondamente scossa, non capacitandosi della tranquillità della coppia di amici di fronte alla scelta di porre fine al loro disastro coniugale; scelta, che ben presto, si rivelerà dolorosissima e tutt’altro che serena. Crollano, così, le certezze sul matrimonio – tanto riguardo la solidità e la felicità della propria unione quanto circa il valore dell’istituzione stessa – ed è delusa dall’amica che pensava le avesse sempre raccontato tutto. Il diluvio è incessante e le coppie sono impossibilitate a uscire per andare a cena. L’unica soluzione è trascorrere la notte insieme: da qui si dipana una complessa matassa di tradimenti, segreti e desideri che hanno effetto deflagrante sul palcoscenico, turbando l’apparente equilibrio quotidiano delle vite dei protagonisti. È Monica Guerritore a riadattare e a portare in scena – da un’idea di Francesca Reggiani – un cult della filmografia di Woody Allen, “Mariti e mogli”. Tra rotture e improvvise riconciliazioni, nei vagheggiamenti a volte comicissimi a volte paradossali si percepiscono le “piccole altezze degli esseri umani” così familiari a Bergman e a Strindberg (e quindi allo stesso genio newyorchese). Naturalmente ci sono al centro la vita e i rapporti umani, con tutte le loro travolgenti contraddizioni, incoerenze, isterismi e paradossi, come solo Woody è in grado di raccontarcele.
DAL FILM AL PALCOSCENICO. E se l’omonimo film del 1992 – l’ultima delle tredici pellicole girate insieme con Mia Farrow prima della fine della loro relazione in seguito allo scandalo che vedeva coinvolta Soon-Yi Previn (figlia adottiva della Farrow e ora moglie del regista) – è anche il primo di Allen come regista per uno studio che non fosse la United Artists o l’Orion Pictures, la coraggiosa trasposizione teatrale si fregia di una riscrittura elegante e raffinata, sicuramente meno convulsa, spasmodica, ossessiva e ossessionata rispetto alla sceneggiatura originale. Autentiche protagoniste sono la crisi di coppia e l’avventura extraconiugale – entrambi argomenti assai cari all’autore – con tutti gli strascichi che l’insoddisfazione porta con sé. La versione teatrale risulta nel complesso fedele al testo originale ma, d’altro canto, se ne discosta nell’ambientazione (il film che vanta nel cast anche Sidney Pollack, Judy Davis, Liam Neeson e Juliette Lewis è ambientato a Manhattan). Il luogo teatrale unico ospita e dà residenza ai tanti luoghi delle vite coniugali, alle insofferenze e ai desideri che gli otto interpreti confessano occasionalmente al pubblico. Sulle musiche jazz di Louis Armstrong e su quelle di Etta James e Benny Goodman, un ben assemblato cast d’interpreti danza concorde sulle note della vita mentre sullo sfondo il tempo – e l’ora e quaranta di atto unico – scivola via. Non servono suggerimenti per cogliere le atmosfere e le situazioni alleniane per eccellenza, che il pubblico immediatamente è in grado di scorgere nelle spumeggianti dinamiche di dialoghi brillanti. La Guerritore condensa nella regola dell’unità di luogo, tempo e azione – che più spesso dovrebbe essere ripassata nel teatro di oggi – gli sviluppi da cui scaturiscono profonde verità e ogni qual sorta di meschinità. Un luogo unico, simbolo della coppia e del suo disfacimento, ma anche amalgama unificante delle molteplici sfaccettature dei sentimenti e dell’attrazione, oltre che delle insoddisfazioni, che travagliano i perbenisti. Abbattendo i veli dell’ipocrisia, esplodono coppie consolidate cosicché nessuno è quello che sembra e, dopo tanto trambusto, nulla sarà più uguale a prima. Le vicende, condensate in una sola notte (il film si sviluppa nel lasso di un anno e mezzo), spingono i protagonisti a riflettere sulla presenza o sull’assenza dell’amore, dialogando talvolta con il pubblico al fine di svelare quello che accade nel loro mondo interiore. Con intelligenza e ironia ne esce un impianto drammaturgico realistico, carico di tensioni e di conflitti come si addice a un crogiuolo di attrazioni momentanee e pruriginose distrazioni, a crisi di mezza età e desiderio di evasione.
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GUERRITORE MATTATRICE. Il risultato è un piccolo gioiello di malinconia, mista a tristezza e speranza, che dà colore e gusto a tutto il calibratissimo dialogo di un testo di per sé ricco e sfaccettato di personaggi, situazioni e ribaltamenti emotivi. Monica Guerritore convince nel ruolo di Sally, la moglie abbandonata e infine riconquistata dal marito fedifrago, e – non c’erano dubbi – nella triplice veste di riduttrice, regista e attrice: impeccabile, intensa, affascinante ed emotivamente coinvolgente. È complementare Judy (Francesca Reggiani), che inconsapevolmente inizia a percepire il malessere nel rapporto col marito Gabe: con perfetta naturalezza borghese entra da subito in perfetta empatia con lo spettatore, restituendo un personaggio dinamico e divertente, l’unico alla fine della fiera a essere predisposto al cambiamento. E se Jack (Ferdinando Maddaloni), uomo d’affari, ha una relazione con la prosperosa Sammy, esperta di burlesque, salvo poi pentirsene e tornare al nido, a naufragare definitivamente sarà la coppia di amici, apparentemente ben salda. Gabe (Cristian Giammarini), stravagante scrittore e docente universitario, è tentato dalla devozione e dalla civetteria dell’allieva Rain, del cui racconto “Il sesso orale e l’età della decostruzione” è grande ammiratore. Tutti i caratteri in gioco sono efficaci e adeguatamente complessi, validi alla costruzione di una fauna variegata che interagisce molto bene. Ci sono l’attraente Michael (Enzo Curcurù) e l’impiegato Paul (Angelo Zampieri) ma anche le ben delineate Rain (Malvina Ruggiano) e la frizzante Sammy (Lucilla Minnini), in un certo senso “deus ex machina” della vicenda. Fanno il resto il fitto copione e le piccole nevrosi. La materia – tanto sullo schermo quanto in teatro – non poche affinità presenta con la più o meno recente cronaca dei rotocalchi e con le accuse di morboso interesse per le giovani donne che hanno visto protagonista il regista. Senza dimenticare, però, che Rain ha sì vent’anni, ma è affascinata dal maestro così come lo è stata da altri cinquantenni, rimanendo una ragazza di talento – stravagante e indipendente – che sa pensare con la sua testa. In un continuo avvicendarsi di rivelazioni pubbliche e private, in prossimità dell’alba si sonnecchia sulle poltrone e ci si abbraccia nell’oscurità.
Le scene di Giovanni Licheri e Alida Cappellini, al pari del sapiente uso delle luci curate da Paolo Meglio, conferiscono a tutto l’impianto scenico un fascino irresistibile. Monica Guerritore dirige se stessa e il resto del cast con brio e freschezza, pur ingenerando talvolta disagio nello spettatore, come nella prefigurazione dei disastri coniugali portati in scena. Una giostra di umanità comica e drammatica al contempo che si traduce in una sofisticata e amara educazione sentimentale, incarnazione della vita e delle nevrosi secondo Woody Allen. Del resto, come dice Gabe, “la vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione”.