Ma allora è proprio finita? Neanche l’ultima, debole, breve, fiammata degli Indignados e del movimento Occupy Wall Street ha riacceso i sacri fuochi del rock. Che dorme, latita, è assente, così come sta praticamente scomparendo dalle classifiche, lasciando il posto a un dominio pressoché assoluto del pop commerciale. I margini sembrano ridotti, come se il rock stesse diventando una riserva, da proteggere e magari conservare con cura, come un retaggio del passato. All’orizzonte non si scorge alcuno in grado di contrastare la marea montante del disimpegno musicale.
Sembrerebbero circostanze molto distanti tra di loro, la protesta e le classifiche, e invece sono strettamente connesse. Parlano entrambe di un vuoto, del fatto che il popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato, sembra tornato a un’era pre-rock in cui la musica era soprattutto intrattenimento, magari licenzioso, qualche volta trasgressivo, ma pur sempre solo e soprattutto divertimento. Di nuovi gruppi rock ce ne sono, a centinaia, ma preferiscono un profilo più basso e aristocratico, nessuno di loro sembra volersi fare carico di essere portavoce di alcunché, tantomeno di esprimere nelle canzoni un grande respiro generazionale. «Lo sconforto per me è vedere che il rock ha toccato un punto morto… le uniche persone che dicono qualcosa che conta sono i rapper» ha detto di recente Roger Daltrey, per poi aggiungere: «Anche la maggior parte del pop è senza senso e facilmente dimenticabile: guardi queste popstar moderne e non ti rimane assolutamente nulla».
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PERDUTI GLI ANTICHI FURORI: IL ROCK COME IL PD ITALIANO. Se dovessimo trovare oggi un pezzo rock capace di interpretare il presente faremmo una gran fatica. Anche band storiche come U2 non sembrano più molto intenzionate a cavalcare la ricerca dei nuovi sentimenti planetari. E ovviamente, se di vuoto si tratta, c’è spazio per ogni tipo di revival. I Sessanta, che non tramontano mai del tutto, poi Settanta, gli Ottanta, i Novanta, una spirale infinita e ormai più che logora, anche con l’alibi di vintage, che rimbalza da un luogo all’altro dell’immaginario sonoro dei nostri tempi. «Questo è lo stato del mondo in cui viviamo, abbiamo i talent show» commenta amaramente la voce dei The Who. Chiedendosi: «Dove sono gli artisti capaci di scrivere guidati da un senso d’angoscia o da uno scopo?». E rispondendosi: «Non esiste più un movimento: noi avevamo i mods, poi il punk, ora è impossibile dar vita a un movimento. Tranne che per l’Isis».
Il rock appare come il Pd italiano. Se da una parte non sembra avere molte difese commerciali da opporre al pop(ulismo) che avanza, dall’altra non riesce a fornire emozioni in grado di aggregare forze collettive. Non ci sono nuovi partigiani, nuove figure carismatiche, nemmeno inni, canzoni come “We shall overcome” o “Blowin’ in the wind”, per rimanere alle vecchie posizioni anni Sessanta, ma neanche pezzi incendiari come “London calling” o come gli ultimi vagiti di rabbia espressi dal grunge. In fin dei conti non ci sono brividi da condividere. Nel 2011, a dar man forte ai manifestanti di Occupy Wall Street allo Zuccotti Park andarono Tom Morello dei Rage Against The Machine e vecchie glorie come Neil Young, David Crosby e Graham Nash. Quest’ultimo introdusse “Teach your children”, dicendo: «Questa la conoscete, quindi aiutateci a cantarla. L’ho scritta quarant’anni fa ma ci siamo accorti di quanto sia attuale. Dobbiamo impegnarci a far crescere meglio i nostri figli».
LE CANZONI DELLA RESISTENZA: 1942-2018. Come dire, visto che non c’è niente di contemporaneo che possa adattarsi alla nuova situazione, tanto vale cantare le vecchie cose, che almeno sapevano il fatto loro. È quello che ha pensato il chitarrista e compositore Marc Ribot (con una blasonatissima carriera al fianco di nomi come Tom Waits, John Zorn, Elvis Costello, Vinicio Capossela, Wilson Pickett, Elton John, Chiara Civello, Diana Krall, Marianne Faithfull, David Sylvian e Arto Lindsay). L’ex Lounge Lizard ha infatti assemblato un album intitolato “Songs of resistance 1942-2018”, ovvero una raccolta di canzoni di protesta ispirata all’elezione di Trump, con brani inediti e rivisitazioni di pezzi classici del canzoniere americano e non. Fra i brani troviamo una intrigante “Bella ciao”, affidata alla voce cavernosa e scartavetrante di Tom Waits. «È in inglese perché volevo la capissero tutti» spiega Marc Ribot. «Tom ha contribuito in maniera decisa, l’ha scelta personalmente, suona come un vecchio “partigiano”». Il cantautore di Pomona torna a cantare dopo due anni di silenzio e prende per mano il canto di libertà della Resistenza, portandolo indietro nel tempo, fino al folk degli Appalachi, al blues del Delta, al jazz, al folk klezmer, a Bertolt Brecht, sovrapponendo piani temporali, suonando arcaico e moderno al tempo stesso. “Bella ciao” diventa così il canto di libertà universale. Una globalizzazione già cominciata con la serie tv cult “La casa di carta” di Netflix, la più vista di sempre tra quelle non in lingua inglese.
Nell’album “Songs of resistance 1942-2018”, Marc Ribot riprende in maniera eterea un altro classico della Resistenza, “Fischia il vento”, affidandolo alla voce di Meshell Ndegeocello con il titolo di “The Militant Ecologist”.«Non esiste movimento che abbia segnato la storia senza una buona colonna sonora» conferma Marc Ribot, con il quale la politica è vera politica, la rabbia è vera rabbia. Come nel caso di Roger Waters che già nel gennaio 2017 lanciò la sua Resistenza con una versione live del brano “Pigs (Three Different Ones)” tratta da un concerto tenuto dall’ex Pink Floyd a Città del Messico: messaggio ribadito a ogni tappa del suo leggendario “Us + Them Tour”. E che tocchi a un sessantaquattrenne ed a un settantacinquenne stringere il pugno più forte di gente che ha la metà o un terzo dei loro anni è una cosa che fa riflettere.
INDUSTRIA E TECNOLOGIA SOTTO ACCUSA. Non è tuttavia colpa delle nuove generazioni, tanto più preparate e mature dei loro padri, se la tecnologia, il mercato e il declino di certa cultura occidentale le hanno private di un sogno: quello di sentirsi coinvolti in qualcosa di più grande, di esaltante. «Ho scritto molte canzoni politiche e continuerò a farlo. Chi fa la stessa cosa, sa che non avrà spazio» spiega Neil Young dall’alto della sua ultrasettantennale esperienza. E accusa: «Le case discografiche non cercano queste canzoni e le radio programmano soltanto quello che si immaginano tu voglia sentire. È tutto basato sugli algoritmi. E internet non cambia la situazione. Anzi, in più il suono è pessimo. Algoritmi e playlist non aiutano a scoprire nuova musica. Guardate quello che stanno facendo Facebook e Google: sulla base delle tue scelte passate, provano a decidere cosa farai nel futuro, riducendo così le alternative. Ci spingono a ripeterci all’infinito. Sono un oltraggio all’intelletto».