Per loro, che sono genovesi doc, Sanremo «era un mito a due passi da casa, un sogno irraggiungibile, un’offesa al suono che escludeva. Ora è diventato Ghemon, è Motta, è Zen Circus, un posto dove possiamo stare anche noi». E, soprattutto, un modo per allargare ancora la propria platea. Che non è così piccola dopo il “boom” dell’album “Marassi” che li ha portati nei palasport. E in “zona Genova” gli Ex-Otago rimangono con “Corochinato”, il disco che uscirà l’8 febbraio contenente “Solo una canzone”, brano sull’amore adulto con il quale sono in gara all’Ariston.
“Corochinato” riprende il nome di un aperitivo che si beve nei carruggi dal 1886. Una miscela tra vino bianco e infusione di erbe, una sorta di «vino aromatizzato che racchiude la mentalità Otago» spiegano. «È un vino economico che si trova in pochi posti, si beve dopo il lavoro, quindi aggrega in un momento bello della giornata. Viene venduto in baretti piccoli, in particolari in uno dove ci sono Adriano e la Marchesa, che sono i classici eroi non eroi. Nessuno li conosce ma sono gli eroi del quartiere. Rappresenta l’inizio della sera che è un momento che incarna bene il disco, un po’ crepuscolare».
Marassi, Corochinato, tutti simboli di una Genova a cui la band è legatissima e che vive un momento complicato. Gli Ex-Otago sono stati fra i primi artisti a muoversi dopo il crollo del Ponte Morandi: «È stato uno shock incredibile – raccontano -, un momento di incredulità a cui è seguito un desiderio di reazione e resistenza. In qualche modo quel desiderio è stato messo in campo, in altri meno e si potrebbe fare qualcosina di più, molto di più. Prima di tutto individuare chi ha colpe, cosa che non è stata del tutto fatta. Purtroppo è una bacchettata che Genova prende sulle nocche quando già era abbastanza affaticata. Ma ci piace pensarla come una forma di resistenza. Noi lo facciamo cantando una Genova che non è solo quella dei vicoli di De André, che è consapevole della tradizione ma la prende per guardare oltre, senza conservarla immutabile e immutata».
Ecco, De André, del quale da poco è stato ricordato il ventesimo anniversario della scomparsa, una bella eredità da portare sulle spalle per chi è nato e vissuto lì… «È come se in un monolocale mettessi un milione di libri, non è proprio semplice da gestire. Lui ovviamente ha lasciato un’eredità gigantesca e a Genova ci guardiamo sempre indietro. Siamo cresciuti a pane e De André, ma non bisogna nascondersi. La verità è che patiamo questa mentalità per cui ciò che è stato è sempre meglio di quello che è o potrebbe essere. Le cose stanno un po’ cambiando, ma comunque viviamo Faber con un misto di stima e affetto e di sofferenza. Siamo cresciuti con Faber e la scuola genovese, ma i padri, anche quelli nobili, a un certo punto vanno mandati… a quel paese. Anche perché c’è una giovane scena importante, e non penso solo a Ghali e Tedua. Le ferite della nostra città sono tante, non si sono ancora chiuse quelle del G8 e di piazza Alimonda, e vicino a noi qualcuno vorrebbe costruire muri mentre crollano ponti».
Tra Baglioni e Salvini scelgono il primo: «Genova, per la sua storia, è sempre stata e sempre sarà fonte di diversità». Non a caso loro sono pronti a raccontarsi anche con un docufilm, “Ex Otago – Noi siamo come Genova”, prima di inaugurare, il 30 marzo, a Torino, il tour «Cosa fai questa notte?». Che parte in salita. Pochi giorni fa, infatti, qualcuno è entrato nella loro sala prove e ha rubato parte della strumentazione. Il mondo della musica si è mosso e ora sono pronti: «C’è stata grande solidarietà tra musicisti, abbiamo ricevuto una chiamata dai Negrita che hanno subito lo stesso furto. Si è attivata subito la rete e abbiamo recuperato la roba, almeno in prestito. Cercheremo presto di riacquistarla. Una menzione d’onore va alla Siae, che si è fatta viva e resa disponibile per supportare le spese per riacquistare la strumentazione».