Passare troppo tempo sui social network durante l’orario di lavoro può portare al licenziamento. Anche secondo la Corte di Cassazione che ha reso definitivo quello di una donna della provincia di Brescia, impiegata come segretaria part time in uno studio medico che, durante l’orario di servizio, nell’arco di 18 mesi, aveva effettuato circa 6 mila accessi in Internet, di cui 4.500 su Facebook «per durate talora significative». La suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’appello che aveva ritenuto la gravità del comportamento in «contrasto con l’etica comune», tanto da incrinare il rapporto di fiducia.
Per i giudici della Corte di Cassazione non c’è stata nessuna «violazione delle regole sulla tutela della privacy», come sostenuto dalla lavoratrice nel suo ricorso, mentre la riconducibilità alla sua persona della consultazione di siti «estranei all’ambito lavorativo» è stata riscontrata grazie al fatto che «gli accessi alla pagina personale Facebook richiedono una password», cosa che esclude «dubbi sul fatto che fosse la titolare dell’account ad averlo eseguito».
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«Senza entrare nel merito della sentenza – dice all’Adnkronos il sociologo Paolo De Nardis, ordinario di sociologia all’Università La Sapienza – il problema è che ci troviamo di fronte a una indiscutibile vacuità normativa in tema di social network. Non esiste una legislazione precisa sull’argomento, il lavoro delle corti giudicanti non può basarsi su presupporti e parametri concreti e quindi si finisce per giudicare secondo il senso comune». Per Michele Sorice, direttore del Centre for Conflict and Participation Studies dell’università Luiss, «bisogna distinguere caso per caso, a seconda delle mansioni svolte, per valutare compiutamente se si sia o no in presenza di un abuso. Non sempre il numero elevato di accessi è sinonimo di perdita di tempo sul posto di lavoro».