L’accordo raggiunto da Theresa May con l’Unione Europea sulla Brexit è stato bocciato due volte. La premier è arrivata a mettere sul tavolo le sue dimissioni in cambio di un sì: «Sono preparata a lasciare il mio posto prima di quanto intendessi per assicurare una transizione ordinata e non traumatica della Brexit». Se i tentativi di May non sono andati a buon fine, quelli del Parlamento britannico non sono stati da meno. Delle otto alternative al piano May proposte dalla Camera – dal no deal alla permanenza nell’unione doganale, dal secondo referendum al mercato unico – nessuna è stata approvata.
Westminster ha dimostrato di non avere un «piano B». I deputati, investiti dall’emendamento Letwin della possibilità di indicare vie alternative alla Brexit, alla fine non sono stati capaci di esprimere una linea chiara, anche se mostrano di avere una preferenza per un’uscita dalla Ue con un’unione doganale (264 sì e 272 no) e per un secondo referendum sull’accordo di ritiro (268 sì e 295 no). È la prova che la Brexit, semmai si realizzerà, è un fallimento nazionale di cui l’unico colpevole non è il governo ma un Parlamento incapace di esprimere una maggioranza chiara. In un’ultima mossa disperata la premier May ha promesso le sue dimissioni: «Votate il mio accordo con la Ue e quando la Brexit sarà portata a compimento me ne andrò da Downing Street in modo da fare quel che è giusto per il partito e per il Paese».
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È la prova che il mandato di Theresa May, la cui fine lei stessa aveva fissato in precedenza entro il 2022, va avanti con un solo scopo: realizzare l’uscita dall’Unione europea e farlo in maniera ordinata entro il 22 maggio, come ha stabilito il Consiglio europeo se il Parlamento darà il via libera all’accordo negoziato con l’Ue. La premier dalle sette vite si gioca dunque la sua settima e definitiva esistenza politica nel disperato tentativo di convincere gli anti-europeisti e i laburisti. Il 29 marzo, la data inizialmente fissata per l’uscita, è diventato adesso il giorno ultimo fissato dalla Ue perché i parlamentari diano la loro benedizione all’accordo, che arriverebbe comunque con due mesi di ritardo.
Resta l’ostacolo del veto posto dallo speaker della Camera John Bercow: senza modifiche sostanziali al testo della mozione non consentirà un terzo voto su una mozione già bocciata due volte. «Se, come alcuni riferiscono, il governo intende riportare l’accordo al voto venerdì, mi aspetto che rispetti il test del cambiamento», ha dichiarato Bercow, aggiungendo che l’esecutivo «non dovrebbe provare ad aggirare la mia decisione». L’esecutivo tenterà il tutto per tutto entro domani, come ha già confermato, annunciando una mozione all’ultimo giorno utile.