Lo scorso 29 marzo a New York si sono rimessi a suonare insieme dopo non essersi sentiti per otto anni. L’iconico interprete Bryan Ferry, il polistrumentista Andy Mackay e il chitarrista Phil Manzanera, ovvero i tre quinti dei leggendari Roxy Music, artefici della rivoluzione musicale all’alba degli anni Settanta. Mancavano solo Brian Eno e Paul Thompson alla festa per l’ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame.
Insieme, i Roxy Music hanno eseguito “In Every Dream Home A Heartache”, “Out Of The Blue”, “Love Is The Drug”, “More Than This”, “Avalon” ed “Editions Of You”. Canzoni che, accanto a “Slave to love”, “Don’t stop the dance”, “Oh Yeah”, “Jealous gay” e altri tredici brani, fanno parte della scaletta dell’Avalon Tour con cui Bryan Ferry celebra la sua band ma senza gli amici di un tempo. Uno spettacolo raffinato ed elegante che ha fatto scalo al Medimex di Foggia, unica tappa italiana.
Era il 1972 quando i Roxy Music pubblicarono il primo album. Colpirono subito la pin-up in copertina e, all’interno, i componenti della band rivestiti di stelline e pelle con ciuffetti in stile anni Cinquanta. Una esplosione di glamour in una terra desolata di jeans sbiaditi.
«I vestiti che indossavamo in quella occasione avrebbero allontanato un bel po’ di persone», riflette oggi Bryan Ferry, che di quella band fu il leader. «Quello che mi piaceva delle band americane, quelle della Stax o della Motown, erano i costumi degli spettacoli, abiti in mohair, piuttosto scintillanti. Per la copertina ho pensato a tutte le icone della cultura pop americana, Marilyn Monroe, ma c’era anche qualcosa di strano: futuristico e retrò. La norma del tempo invece avrebbe imposto un’immagine della band, in una strada squallida, dall’aspetto piuttosto cupo».
La musica della band era all’altezza della sfida lanciata dalla copertina: un collage di nostalgia della cultura pop, chitarra hard-rock, melodie pianistiche, voci stilizzate, strane strutture musicali e immagini sonore sperimentali. Una sintesi radicale che ha mappato il futuro nello stesso momento in cui ha saccheggiato il passato.
«Stavamo decisamente cercando di dimostrare la nostra versatilità», dice Ferry ora. «Ho avuto un sacco di influenze musicali, oltre a ciò che la band ha portato in tavola». Il chitarrista Phil Manzanera portò «l’eredità latina, essendo nato in Sud America». Andy Mackay, che suonava il sassofono e l’oboe, aveva una educazione classica. E poi Brian Eno, con il suo profondo interesse per la musica sperimentale. «Erano tutti specialisti nel proprio campo. Paul Thompson ha portato molto, con la sua batteria molto potente e terrosa, che era una delle caratteristiche dei Velvet Underground. Era una miscela perfetta».
La stessa miscela che Ferry tenta di ricreare sul palco dell’”Avalon Tour”: al suo fianco una giovane sezione ritmica, il fidato e anziano chitarrista Chris Spedding, un coro di voci africane, una violinista e la splendida e sorprendente sexyphonista (e non si tratta di un refuso) Jorja Chalmers, top model dalla bellezza mozzafiato prestata alla musica, che sembra una pin-up anni Cinquanta uscita da una vecchia copertina di un disco dei Roxy Music.
Ferry, 73 anni, giacca sportiva e pashima, ben presto rinforzata da una sciarpa di cachemire con il calar della sera, mantiene un bell’aspetto. Si preserva non andando oltre l’ora e mezza di concerto prestabilita e lasciandosi cullare dai lussi.In Puglia ha scelto come residenza un edificio del XIII secolo nei pressi di Lucera, a pochi chilometri da Foggia. Una location fiabesca, molto glamour e un po’ kitsch per matrimoni indiani: velluti, piscine grandiose, lussureggianti giardini. Si prepara ad affrontare l’impegno sul palco affidandosi alle mani di due massaggiatrici e proteggendo la voce con una temperatura costante di 23 gradi e un cucchiaino di miele di manuka.
Cresciuto a Washington, nella contea di Durham, Inghilterra, durante la monocromia degli anni Cinquanta, Ferry ha trovato un’ancora di salvezza e un’ispirazione: «Ho amato la musica americana», dice. «Dall’età di 10 anni ogni settimana scoprivo qualcuno di nuovo. Mi piaceva molto il jazz. Sai come sono gli inglesi: c’è una certa quantità di snobismo musicale. Voglio dire, adoravo Little Richard e Fats Domino, ma quando ho sentito Charlie Parker per la prima volta, questo era qualcosa che amavo davvero, e nessuno sapeva qualcosa di lui. È bello avere le tue ossessioni private». Amava i poeti beat, T.S. Eliot e i brani dei musical americani. «Mi piacevano Fred Astaire, Cole Porter, e sentivo quelle canzoni interpretate da Charlie Parker, Lester Young, Billie Holiday. C’era un negozio di musica a Newcastle dove si poteva andare in uno stand e ascoltare queste cose. In pratica io vivevo lì».
Nell’autunno del 1964, entrò nel dipartimento di belle arti dell’Università di Newcastle, dove si innamorò dell’artista pop britannico Richard Hamilton e di Mark Lancaster, socio di Andy Warhol. Dopo essersi laureato, Ferry si trasferì a Londra, dove si sostenne insegnando arte e ceramica in una scuola di Hammersmith.
La musica Roxy nasce nella capitale inglese alla fine degli anni ‘60. Dopo aver cantato R&B e soul con gruppi come Gas Board e City Blues, iniziò a perseguire l’idea di suonare da solo. «Nella mia band del college di solito facevamo cover poco note di Bobby Bland e BB King, ma quando scrivevo le mie canzoni, non volevo sembrare troppo americano. All’epoca, la maggior parte delle band inglesi cercavano di sembrare americane. Tranne gente come King Crimson».
Cominciò a mettere insieme i pezzi della sua band. Il bassista Graham Simpson, l’oboe di Mackay, poi Eno, che ovviamente manipolò il synth. «Quelle trame: l’oboe, molto preciso, e i suoni del synth sono stati colori, trame, stimolatori dell’umore. Erano una parte fondamentale del suono».
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L’influenza dei Velvet Underground, fonti in comune con David Bowie, fusione tra Warholiana tra pop e arte.Era l’esplicita intenzione della Roxy Music di dissolvere i confini tra alto e basso. Come scrive Michael Bracewell, «hanno scelto di abitare il punto in cui l’arte e l’avanguardia incontravano la vivacità del pop e della moda come una forza quasi elementare nella società moderna».
Prodotto dal paroliere di King Crimson, Pete Sinfield, l’album “Roxy Music” esce nel marzo 1972. Pubblicato nella stessa settimana di “Ziggy Stardust”, entrò nelle classifiche degli album nel Regno Unito alla fine di luglio del 1972. Bryan Ferry non immaginava che l’album avrebbe potuto raggiungere un pubblico mainstream. «Abbiamo pensato agli studenti d’arte, gente come noi, un pubblico di nicchia. Quando ho sentito “Virginia Plain” alla radio di mezzogiorno ho capito che avevamo sfondato. Ascoltare “Virginia Plain” alla radio sembrava … qualcosa. O vedere l’album riempire la vetrina del negozio di dischi in King’s Road… È stato molto commovente per me. Passeggiavo tutta la notte davanti a quella vetrina, non potevo crederci. Era così bello vedere l’immagine ripetuta».
Nostalgico, avanguardista, sentimentale, decadente, Bryan Ferry è uno dei pochi artisti che può vantarsi di avere diversi imitatori e nessun epigono. David Bowie lo ha definito «il miglior autore di testi di tutta la scena britannica». La sua musica resiste al tempo, i suoi tour registrano il “sold out” dall’Oceania alla Lapponia. La sua gente lo ama così com’è: sofisticato, struggente, quasi costretto a un look sempre impeccabile. Un Cary Grant del rock. Lo ami o lo detesti. Un dandy sempre in bilico tra la stravaganza del rocker e la raffinatezza del crooner. Ora con l’età che avanza il secondo ha preso il sopravvento.
«Man mano che invecchio continuo ad andare indietro negli anni. Quando ho iniziato a fare dischi, volevo fare qualcosa del nostro tempo, la musica moderna» ammette. E spiega: «Oggi non c’è molta melodia oggi nella musica moderna. Si assiste a una enorme banalizzazione: è tutta una questione di ritmo e battiti e di tanto in tanto c’è un disco hip hop in cui c’è una ragazza che canta nella parte centrale e si ottiene una melodia. Per quanto riguarda le rock band, trovo la maggior parte interessante, ma, per quanto buoni possano essere, sembra che suonano come una persona di 20 o 30 anni fa. L’ultimo vero talento è stata Amy Winehouse».