L’Italia, per lei, è un luogo simbolico. La terra che l’ha salvata dalle peggiori tentazioni del rock’n’roll e che l’ha elevata come artista. Il Paese che, nella seconda metà degli anni Settanta, l’ha eletta per acclamazione “sacerdotessa del rock”. E per questo motivo, ogni anno, Patti Smith torna, e a più riprese. O per una mostra, o per un libro, o soltanto per vacanza, «per ammirare il vostro grande patrimonio d’arte e di cultura». Quest’anno l’occasione è data dal Medimex di Taranto che ha voluto ricordare il quarantennale dei leggendari concerti di Bologna e Firenze del 1979 che in Italia sancirono il ritorno dei grandi raduni rock dopo la “stagione degli incidenti”, mentre per lei rappresentarono l’addio alle scene musicali.
«Dopo quei due megaconcerti decisi di ritirarmi» ricorda oggi. «La vita con Fred (“Sonic” Smith, il marito chitarrista, nda) era il paradiso che sognavo». «Rinunciai alla fama, non all’arte» tiene però a sottolineare. «Nonostante gli impegni domestici, riuscivo a ricavarmi del tempo per scrivere, senza pensare alla pubblicazione o a eventuali editori. Gli anni del rock’n’roll erano stati meravigliosi ma anche logoranti e oltretutto non mi sentivo pienamente realizzata come artista. Non c’era più tempo per la solitudine, per la scrittura, per la poesia. Tantomeno per l’amore». A quei concerti accorsero oltre cinquantamila spettatori al richiamo della “sacerdotessa del rock” e, in particolare, di “Because the night”, la canzone che le diede una popolarità internazionale. «Io stavo registrando l’album “Easter” e, nello studio accanto, Bruce Springsteen lavorava a “Darkness on the Edge of Town”» ricorda. «Capitò che il suo produttore, Jimmi Iovine, fosse anche il mio ingegnere. Un giorno mi disse che Bruce aveva difficoltà a finire “Because the night” e pensava di non inserirla nell’album perché era un’ennesima canzone d’amore. Io, a quel tempo, avevo cominciato la storia con mio marito e stavo scrivendo varie canzoni d’amore, fu facile completare “Because the Night”».
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“L’amore è un banchetto che ci sfama” recita il testo. La storia con Fred “Sonic” Smith fermò la sua vita. Addirittura si ritirò dalla musica. «Ma non fu solo per amore. Il mondo della musica si stava appropriando della mia vita e volevo aver tempo per studiare, per leggere. Quando incontrai Fred l’intesa fu così forte e perfetta che eclissò d’un colpo tutto il resto. Volevo progredire, fare di più, fare cose diverse. Quando ero molto giovane non avevo l’ambizione di essere una cantante o una interprete. Volevo fare la poetessa, la performer. Non ho scelto la musica, la musica ha scelto me. Non ho mai vissuto come una celebrity, non ho mai avuto il tenore di vita di una rockstar, vivo in semplicità e ho un’età che incute rispetto. Non ho mai ragionato in termini di carriera. Ho pensato alla vita e al lavoro. Meglio, ho cercato di conciliare vita e lavoro. Ora sono serena, i miei figli sono cresciuti e ho ancora parecchi progetti in cantiere». Quando suo marito Fred morì, Patti fu “costretta” a elaborare in fretta il lutto per tornare alla musica. «Anche in quel caso non fu facile, ma dovevo darmi da fare per vivere. Non puoi permetterti di arrenderti al dolore quando hai due bambini in casa, una di 6 uno di 12 anni, e un conto in banca che langue. Ero devastata, ma ho dovuto mettermi l’elmetto e tornare in guerra. Quel che ho fatto è lavorare per garantire loro una vita stabile e a me la libertà di agire da adulta in estrema libertà».
Patti Smith, icona del rock, parla con una certa ritrosia della sua vita privata. Occhiali scuri, senza una traccia di trucco, mostra orgogliosa le rughe e i capelli grigi. È una donna riservata e timida. Fa una vita ritirata, dipinge, fotografa, scrive libri, immagina un mondo migliore, tiene a bada i dolori di una vita circondata dai lutti: il marito, il fratello, l’amico fotografo Robert Mapplethorpe, il padre, da ultimo Sam Shepard, con il quale ebbe una storia d’amore negli anni Settanta. Patti piange le loro morti in “Gone Again”, un album cupo e segnato dal lutto. Con “About a boy” viene ricordata anche la scomparsa di Kurt Cobain e in “Fireflies”, Jeff Buckley offre il suo prodigio musicale per l’ultima volta. “Gone Again” è un album che porta la Smith in contatto con i fantasmi del suo passato. Quando, nei suoi concerti, interpreta un inno al nichilismo come “My Generation”, muta la frase “Hope I die before I get old” (spero di morire prima di invecchiare) in “Hope I live before I get old” (spero di vivere prima di invecchiare). «Quando la canto cambio le parole perché spero di diventare molto vecchia. Ho tanti amici che sono morti troppo presto».
Oggi Patti Smith appare la stessa di quel folgorante periodo a New York. Seduta davanti a una tazza di caffè nero, pane integrale tostato e un piattino di olio d’oliva, come fa ogni mattina al suo solito tavolo d’angolo al Café ‘Ino, minuscolo locale del Greenwich Village, «dopo aver dato da mangiare all’ultimo sopravvissuto dei suoi tre gatti», medita sul mondo com’è e come è stato e traccia pensieri e disegni su un taccuino. L’ambiente oggi è la sua preoccupazione. «Bisogna che i ragazzi seguano l’esempio di Greta Thunberg, solo i giovani possono salvare il mondo dalla distruzione che stanno causando uomini come Trump, industrie come l’Ilva. È assurdo che Taranto produca le cozze accanto all’acciaio».
Anche la musica è natura, secondo Patti Smith. E bisogna salvaguardarla. «Sono andata a vedere le persone che amavo e ho adorato» racconta mentre al mercato ittico si aggira tra i banchi pieni di cozze e pesce. «Eric Burdon, l’ho adorato con gli Animals. E ho amato Bob Dylan, naturalmente. Amo sentire quello che mi piace come Jimi Hendrix, Wagner o Verdi. Spesso ascolto un disco della Callas con le arie di Puccini. Potrebbero essere tutte hit. Le sue melodie hanno influenzato profondamente la musica americana. Non so neppure cosa ascoltano i giovani di oggi. Ogni generazione ha la sua musica. Ai tempi nostri c’erano solo due modi per farlo: sentire la radio o comprare dischi. Adesso i ragazzi hanno a disposizione tutto quello che vogliono ascoltare, ma questo provoca dispersione, la nostra generazione poteva parlare tutta lo stesso linguaggio, ora è impossibile».
Di quell’epopea rock resta tuttavia «la capacità di comunicare» sospira l’artista settantaduenne. «La musica è la più grande arte di condivisione e le performance dal vivo conservano la stessa forza, specie in momenti così frustranti come quelli attuali è importante che ci siano questi lampi».
Come il concerto che domenica 9 giugno ha chiuso il Medimex 2019 di Taranto, organizzato da Puglia Sounds e dalla Regione pugliese: una celebrazione del rock. In scaletta molti omaggi ai grandi del passato, da Elvis Presley a John Lennon, dagli Who a, ovviamente, Bob Dylan, che Patti rappresentò il giorno della consegna del Premio Nobel per la Letteratura. «Sono le cose che mi piacciono e cambiano sera dopo sera perché non faccio mai lo stesso concerto». Senza dimenticare l’amore per la poesia, che l’ha spinta a condividere il lavoro dei Soundwalk Collective, trio composto da Stephan Crasneanscki, Simone Merli e Kamran Sadegh. Patti Smith collabora a una trilogia intitolata “The Perfect Vision”, della quale a fine maggio è uscito il primo capitolo “The Peyote Dance” che prende spunto dall’omonimo libro di Antonin Artaud ispirato dalle esperienze mistiche che lo scrittore e drammaturgo ha vissuto assieme alla tribù messicana degli Rarámuri nel 1936. Già pianificati i due prossimi capitoli, dedicati rispettivamente a Arthur Rimbaud e René Daumal.