C’è solo un sopravvissuto di quel “Triangolo sacro” (e maledetto) della musica rock nata dalle ceneri underground della New York degli anni ’60-’70. Dopo Lou Reed, morto nell’ottobre del 2013 e caposaldo della musica punk e della new wave, ma anche padre di quel cantautorato esistenziale con riff di chitarra distorti, e David Bowie, la cui scomparsa nel 2016 ha suscitato un lutto globale non soltanto nel mondo del pop, è rimasto solo Iggy Pop, un punk di prima generazione che non ne vuole proprio sapere di arrendersi. Il 6 settembre ha pubblicato il nuovo album. S’intitola “Free” e vede l’”iguana del rock” (soprannome legato alla band con cui fece i primi passi nel mondo della musica) abbandonare il suo catechismo distruttivo, con il petto nudo e i pantaloni in fiamme, per tornare sulle orme dei suoi amici Lou e David.
Le origini della definizione di “Sacred Triangle” risalgono a un documentario che mostrava come tre artisti, che lavorarono a stretto contatto negli appartamenti disordinati della Grande Mela, fossero riusciti a rivoluzionare la storia del rock, o meglio di tutta la musica moderna. Lou Reed, poeta maledetto dei Velvet Underground scoperto da Andy Warhol, Iggy Pop, esibizionista front leader degli scorbutici Stooges, band garage che suonava punk dieci anni prima che lo inventassero, e David Bowie, il camaleonte del rock. Con loro il Duca Bianco ha diviso il palco, la sala d’incisione e il letto, perché, in fondo, per la scena glam non esisteva una netta distinzione fra le tre cose. Senza Bowie, Lou Reed non avrebbe mai realizzato “Transformer”, né Iggy Pop avrebbe registrato “The Idiot” o “Lust for Life”, vero e proprio manifesto della sua acre e dissoluta poetica, ruvido, furioso, vitale, emotivo, con due brani destinati a diventare dei classici del rock: la title-track e “The Passenger”. «David mi ha resuscitato – ha ricordato Iggy in un’intervista al New York Times – La nostra amicizia era basata sul fatto che quest’uomo mi ha salvato da un punto di vista professionale e forse anche da un annientamento personale». Iggy considera il Duca Bianco un «benefattore ancora prima che un amico».
Ed è ancora Bowie a indicare la strada all’iguana. Per il cinquantesimo anniversario dell’eruzione Stooges (1969), un’ennesima replica di un Iggy Pop che scatena il suo catechismo distruttivo, con il petto nudo e i pantaloni in fiamme, avrebbe probabilmente divertito la folla. Invece, annunciato da una copertina stile ECM, il settuagenario James Newell Osterberg Jr., alias Iggy Pop, si libera dal peso del suo passato. «Voglio essere libero» ripete nel brano che apre l’album “Free”, nel quale la vecchia iguana osa una moltitudine di stili. «Ho iniziato a indietreggiare dai riff di chitarra a favore di fughe di chitarre, dai twang a favore delle corna, dal back beat a favore dello spazio e, in gran parte, dal gorgo della mia mente e dei miei problemi, a favore del tentativo di interpretare la poesia degli altri», scrive nelle note di copertina. Dopo il flop del precedente “Post Pop Depression”, realizzato con una banda di desperados crestati, Iggy, che non è ancora stato colto da demenza senile, ha capito che a 72 anni è meglio assicurarsi un epilogo più nobile. E come il suo maestro e salvatore David Bowie, gestisce la sua uscita flirtando con il jazz. Iggy sembra imitare il Duca Bianco morente di “Blackstar”, andando a dissolversi nel suono del trombettista texano Leron Thomas e del chitarrista Sarah Lipstate (alias Noveller).
Questo diciottesimo album solista non è free jazz, come lascerebbe intendere il titolo, tuttavia si basa su canzoni piuttosto rock, deviazioni atmosferiche e parole parlate, in un decrescendo crepuscolare. Nel primo registro rientrano “Loves Missing”, che vagamente scimmiotta il riff di “Do I Wanna Know?” degli Arctic Monkeys, e la ipnotica “James Bond”, basata su un basso battente in contrasto con una sottile tromba. La stessa che, in stile messicano, introduce “Dirty Sanchez”, sorta di hip-hop. I suoni si espandono, i testi denunciano la degenerazione della specie nell’era tecnologica («siamo umani, non più umani»), una patina di amarezza accompagna la cometa delle celebrità in “Glow in the Dark”.
L’intero finale è tutto parlato, con una poesia di Lou Reed sul limbo (“We Are the People”) e un’altra di Dylan Thomas (“Do not go gentle into that good night”), che dimostrano che Iggy potrebbe recitare dando gli stessi brividi del Johnny Cash degli ultimi respiri. Infine, in “The Dawn”, la falsa gioia è solo una questione di oscurità.
Con “Free” la resurrezione di Iggy Pop è completa: «Negli anni Ottanta mi è venuta una crescente curiosità di sapere come sarebbe stato vivere senza droghe. Davvero. Era diventata una specie di ossessione. Pensavo: “Cristo, come sarà, potrei mai farlo?”». Oggi ha una nuova vita, in un modesto bungalow sotto il caldo sole di Miami. Una nuova auto, una Rolls-Royce. Nuove passioni, gli abiti di Gucci, il buon cibo, la vita all’aria aperta e il giardinaggio. Celebre la sua frase: «Come vorrei morire? Facendo giardinaggio. Tra l’insalata e i fiori, guardando uno scoiattolo».