Europa, Germania. E il tutt’altro che sottile limite dell’immaginario collettivo pre e post muro. Il 9 novembre 1989 il governo dell’allora Germania Est fu costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la Germania Ovest: la caduta della fortificazione che aveva tagliato in due la città per 28 anni rappresentò il primo passo per la riunificazione della nazione dopo i fatti della seconda guerra mondiale. Nel corso dei decenni non si è risparmiata la cinematografia nel raccontare in modo più o meno esplicito cosa significava vivere da un lato o dall’altro di una barriera che rappresentava molto più di una semplice linea di confine tra due modi antitetici di vivere la società.
Berlino, città cruciale per tutto il Novecento e che in questi ultimi anni è ancora al centro del dibattito: tecnologica e perfetta a uno strato superficiale ma camaleontica, ricca di contraddizioni e solitudine. Un sentimento ancora presente, tra disagi sociali, depressione, alcolismo e disoccupazione.
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Suggestioni metropolitane espresse anche in una ricca filmografia, a partire già dall’inizio degli anni ’20 con la potenza dell’espressionismo tedesco de “Il Gabinetto del dottor Caligari”, interamente girato presso gli studi Lixie di Weissensee. Settanta lunghi anni, tra DEFA – l’ente cinematografico di stato della Germania Est -, la grande stagione cinematografica e musicale del 1989 e serie tv ambientate ai tempi della Guerra Fredda.
La porta di Brandenburgo senza il Muro a farle da cintura è stata a lungo solo un ricordo, per i berlinesi. Immagini in bianco e nero di foto e film, e poi una fitta trama di pellicole che quella cosa lì, il Muro, l’hanno supportata, costruendo storie al di qua e al di là del perimetro. Mentre qualche angelo stava a guardare… Il titolo che più evoca la situazione berlinese del secondo dopoguerra è forse quel Divided Heaven (Der geteilte Himmel, 1964) tratto dal romanzo “Il cielo diviso” di Christa Wolf – anche co-sceneggiatrice – e opera di un Konrad Wolf folgorato dalla nouvelle vague. Il cielo, sopra una Berlino dove nella storia il Muro è ancora in costruzione, non può essere diviso nemmeno dal socialismo, dice Manfred passando a ovest; Rita, che vede l’ovest incellofanato dal capitalismo, la pensa diversamente. Prospettive inconciliabili.
Già appena dopo la guerra, “The Murderers Are Among Us” (Die Mörder sind unter uns, 1946) di Wolfgang Staudte non può che guardare al cielo come risposta, di fronte alla città ridotta a cumuli di detriti: macerie materiali e morali che sono ancora lì, quasi due anni dopo, quando Rossellini gira il suo disperato “Germania anno zero” (1948); negli stessi mesi, con “Scandalo internazionale”, Billy Wilder si preoccupa delle tensioni tra i blocchi e del fantasma del nazismo, cominciando il film nel settore sovietico e completandolo a Hollywood. A ben guardare, anche uno dei sopravvissuti della cinematografia nazista, Josef von Báky, addita il cielo, in “And the Heavens Above Us” (…und über uns der Himmel), girato nel 1947 in quel che avanza degli studi di Tempelhof.
Negli anni del Boom, a ovest, l’edificio simbolo della città diventa forse quello che resta della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche a Charlottenburg, il memento macabro della guerra: in un film per ragazzi profondamente tedesco come “Emil and the Detectives” (Emil und die Detektive, 1954) di Robert Stemmle, ma anche in produzioni americane come “Gente di notte” (1954) di Nunnally Johnson, e, in un passaggio polemico, in “Uno, due, tre” di Billy Wilder (1961). Qui la porta di Brandeburgo fa una delle sue ultime, solenni, apparizioni senza il Muro a farle da cintura. I pionieri in parata, a est, lasciano palloncini nel cielo, «yankees go home».
«La realtà orientale è meno manichea di come la si rappresenta di là» denuncia Gerhard Klein con “Alarm in the Circus” (Alarm im Zirkus, 1954), “A Berlin Romance” (Eine Berliner Romanze, 1956) e “Berlin, Schoenhauser Corner” (Berlin – Ecke Schönhauser…, 1957), una trilogia berlinese che lo impegna insieme con lo sceneggiatore Wolfgang Kohlhaase, ispirata al neorealismo italiano: è il seme dei cosiddetti Alltagsfilme, film sulla quotidianità.
Anni dopo Kohlhaasem, co-regista di “Solo Sunny”, incrocia la strada di Konrad Wolf: in più momenti, lo sguardo di Sunny, oltre all’edera del cimitero, ai muri scrostati dei palazzi, ai caseggiati che crollano come castelli di sabbia per dare spazio alla nuova urbanizzazione, intercetta il volo basso degli aerei diretti a Tempelhof: «Sopra le nuvole», canta Reinhard Mey a ovest, «la libertà deve essere senza confini». Ma Sunny, a est, viaggia liberamente in S-Bahn, mazzate sentimentali permettendo.
È il 1987 e sopra le nuvole, sopra il Tiergarten, Wim Wenders e Peter Handke palesano l’angelo Damiel, e “Il cielo sopra Berlino” ricomincia a sembrare uno solo, anche se lo sguardo non si allunga troppo oltre il limite di Potsdamer Platz. L’immagine più aperta e candida della città a est la dà probabilmente Heiner Carow con “Coming Out” (1989) che, con un canto d’amore, un’invocazione alla tolleranza, la rappresentazione di una città ordinata e decorosa e delle sue contraddizioni, approda sugli schermi proprio la sera in cui il Muro comincia a scricchiolare.
Nove anni dopo Lola corre a perdifiato per le strade di una Berlino senza confini, ma Tom Tykwer sembra più che altro preoccupato a far tornare il suo gioco narrativo. Nello stesso momento Leander Haußmann in “Sonnenallee” gioca a ricostruire sul set il muro e un angolo quasi fiabesco di Berlino est. Dopo il 1989, su parte della città orientale si cristallizza un’aura: le case-alveare, i Plattenbau di Karl Marx Allee, gli edifici di Leipziger Straße e dintorni, evocano immediatamente le atmosfere socialiste, una vulgata di disagio post-sovietico pronta per l’ondata ostalgica; laddove invece la Torre della televisione e il Weltzeituhr sono diventati di diritto simbolo di Berlino, raccontano una città proiettata al futuro, e vengono usati ogni volta che deve passare l’idea astratta di inarrestabile metropoli europea contemporanea – nei vari Bourne, per dire -, smontata e riassemblata, senza che le cicatrici si vedano troppo.
Berlino, il muro e il cinema
Scandalo internazionale (1948) di Billy Wilder
Marlene è la Berlino disperata, vittima del mercato nero, dove tutto si può acquistare: «Volete comprare delle illusioni? Sono quasi nuove» canta la voce democratica di Lili Marlene «Le vendo per un soldo. Sono fatte di dolci ricordi, di lacrime e di sorrisi». Il cinismo presunto di Scandalo internazionale va allora addebitato a chi ha raso al suolo la città due volte e ne impedisce la rinascita, al di là del merito di aver sconfitto Hitler.
Uno, due, tre (1961) di Billy Wilder
Durante le riprese della commedia ispirata allo spettacolo di Ferenc Molnàr, nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, viene annunciata l’imminente edificazione del Muro. Difficile ottenere l’autorizzazione a girare in un clima di tensione generalizzata. Privo di lasciapassare, Wilder commissiona a un prezzo esorbitante la costruzione in Baviera delle repliche dei principali monumenti di Berlino. Al di là del contesto politico, evidentemente allarmato, Wilder tiene il punto sulla maniera in cui rappresentare Berlino, vero e proprio personaggio del suo film, una città che non esiste già quasi più.
La spia che venne dal freddo (1965) di Martin Ritt
Tratto dall’omonimo romanzo di John Le Carré, racconta una storia che inizia e termina con la caduta del Muro, e il film di Martin Ritt è il primo di una serie di adattamenti delle sue opere. Il titolo fa riferimento non solo al rientro di Leamas dall’inverno berlinese: l’espressione idiomatica “to come in from the cold” si usa per chi rientra a far parte della società, di un gruppo, dopo esserne stato lontano. Ritt sembra fare di questa doppia interpretazione una costante del film.
Funerale a Berlino (1966) di Guy Hamilton
Girato in prossimità del muro di Berlino presso un noto posto di blocco, il Checkpoint Charlie, oltrepassa le forme di una spy story elegante e, forse, superata. Restano più incisivi i frammenti realistici sulla città. Per certi aspetti, nonostante sia stato girato 23 anni prima della caduta del Muro, potrebbe aver anticipato Le vite degli altri, realizzato 17 anni dopo il crollo.
Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981) di Uli Edel
Tratto dal romanzo omonimo del 1978, il film porta alla luce la storia di Christiane e il degrado sociale vissuto da Berlino Ovest negli anni Ottanta, tra stupefacenti, povertà, nichilismo. È un affresco pop che mette in luce la realtà di una Berlino divisa non soltanto da un muro.
Octopussy – Operazione Piovra (1983) di John Glen
Film numero tredici per la saga di James Bond; storica la scena iniziale con il clown che fugge nel bosco inseguito dai due gemelli. Brillante tutta la prima parte ambientata a Berlino est, dove la spia inglese travestita viene accoltellata con un uovo di Fabergé in mano.
Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders
Una favola che racconta dei sogni e delle aspirazioni di persone che vivono su fronti opposti; qualsiasi essi siano. Capolavoro assoluto del cinema tedesco, premiato a Cannes per la Miglior Regia e parzialmente ispirato alle poesie di Rainer Maria Rilke, il film di Wenders è potentissimo: due angeli scendono sulla terra nella Berlino degli anni ‘80, testimoni invisibili della sua storia nel corso dei secoli. Osservano la città e i suoi abitanti, ascoltano i pensieri dei berlinesi senza poterli aiutare. Uno dei due, Damiel, si innamora di un’artista circense, per lei chiederà di diventare umano abbandonando così la sua esistenza spirituale. Il film, con chiare ambizioni filosofiche, intende porsi come una riflessione sullo scorrere del tempo e sull’incapacità di comunicare come fonte di un senso diffuso di tristezza. La divisione della Germania, ancora presente quando fu realizzato, non fa che aumentare il dramma.
Il silenzio dopo lo sparo (1999) di Volker Schlöndorff
Film su una banda di terroristi filocomunisti, è figlio della riunificazione e lo si riconosce dal lavoro congiunto tra il regista, l’occidentale Schlöndorff – che negli anni immediatamente precedenti aveva assunto la direzione degli studi di Baberlsberg, già sede della DEFA – e lo sceneggiatore, l’orientale Wolfgang Kohlhaase. Della Riunificazione ha tutta l’asimmetria.
Good Bye, Lenin! (2003) di Wolfgang Becker
Affrontando il passato della DDR, facendo emergere il lato positivo delle esperienze personali (e non solo i danni della STASI), mantenendo uno sguardo comunque critico, il film è concepito da ovest, con attori quasi tutti dell’est. Una spettacolare commedia agrodolce che mette in scena l’Ostalgie, la nostalgia per la vita nella Germania dell’Est, attraverso le vicende della famiglia Kerner. Nel 1989 la mamma di Alexander cade in coma e si sveglia alcuni mesi dopo, con il Muro crollato e la società completamente modificata. Suo figlio, per evitarle lo choc, farà di tutto per fingere che nulla sia accaduto. Interamente girato a Berlino con immagini ritoccate in digitale, per rendere l’atmosfera dell’epoca.
Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel Von Donnersmarck
Ambientato nell’autunno 1984, racconta di una Berlino Est tenuta sotto controllo dalla Stasi, la rete di spionaggio che rendeva impossibile la vita a dissidenti e artisti. Premio Oscar al miglior film straniero, è una spy story ambientata a Berlino Est, nel 1984. Urlich Mühe è un funzionario della Stasi che spia la vita di una coppia formata Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale e intellettuale e sua moglie, attrice. Ne registra ogni passo fino a diventarne complice. L’agente è abilissimo nel proprio lavoro, ma conduce un’esistenza solitaria e senza passioni: lentamente si scopre sempre più coinvolto dalle vite dei suoi spiati e sempre più incuriosito dall’arte e dalla letteratura. Girato esclusivamente a Berlino, da Wedekindstraße, a Friedrichshain, fino a Frankfurter Tor e Karl-Marx-Allee. Ci sono anche le immagini nella zona di quella che fu la sede centrale della Stasi. Ciò che a Von Donnersmarck interessa non è tanto cogliere le dinamiche profonde che si agitano al di sotto degli eventi o dei personaggi quanto avvampare con le tinte del mélo un fosco intrigo spionistico. Un trionfale debutto cinematografico per il regista e sceneggiatore tedesco.
La scelta di Barbara (2012) di Christian Petzold
È un medico, Barbara, berlinese confinata a Torgau, Sassonia, per aver richiesto un visto per l’ovest. Quando la incontriamo per la prima volta, la guardiamo scendere dal bus con lo sguardo di chi la conosce già. È lo sguardo informato della STASI, del suo collaboratore, il medico André.
Il ponte delle spie (2015) di Steven Spielberg
Ciò che interessa a Spielberg, della Storia maiuscola dei manuali, è la frattura, lo squarcio, l’eccezione che rema contro la corrente: il fattore umano che fa saltare gli ingranaggi del potere. Nel bel mezzo della Guerra fredda, a un avvocato statunitense viene affidata la difesa legale di una spia del KGB recentemente arrestata: fra i due uomini nascerà un rispetto reciproco, che faciliterà l’organizzazione di uno scambio di prigionieri fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Diretto con consueta maestria, porta su grande schermo un fatto storico realmente accaduto.