Oltre 140 millimetri di pioggia caduti in 24 ore in un’area che mediamente ne riceve 95 millimetri in un anno. Le violente piogge che si sono abbattute su Dubai sono insolite per un paese famoso per le sue città costruite nel deserto. Strade inondate, auto spazzate via, uno dei più trafficati aeroporti del mondo costretto a chiudere, residenti bloccati nelle case e negli uffici. Si è trattato davvero di un fenomeno estremo e gli esperti si interrogano sulle cause. Il dibattito si sta concentrando su un’attività che gli Emirati Arabi Uniti utilizzano da tempo: il “cloud seeding”, letteralmente “inseminazione delle nuvole”.
L’idea del “cloud seeding” nacque intorno alla fine della Seconda guerra mondiale e da allora le conoscenze intorno a questa pratica sono molto aumentate, anche se periodicamente emergono dubbi sulla sua efficacia e utilità. In estrema sintesi, ogni nuvola è formata da una miriade di minuscole goccioline di acqua, proveniente dai processi di evaporazione degli oceani, dei mari e dei corsi d’acqua, ma anche dell’acqua nel suolo e nella vegetazione in generale. Il vapore acqueo viene trasportato in alto nell’atmosfera dai venti (correnti ascensionali) e la pioggia si forma quando questo incontra i nuclei di condensazione, cioè minuscole particelle in grado di assorbire le molecole d’acqua fino alla formazione di gocce che per gravità tornano verso il suolo.
I primi sperimentatori del “cloud seeding” si chiesero se non fosse possibile accelerare il processo o amplificarne gli esiti introducendo artificialmente nuclei di condensazione. L’inseminazione avviene attraverso l’utilizzo di aerei che iniettano nelle nuvole particelle di sale o di ioduro d’argento, in modo da formare cristalli di ghiaccio che si condensano in pioggia o neve, a seconda dell’altitudine. Secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, in condizioni ottimali, la semina può aumentare le precipitazioni di una singola nuvola fino al 20%
Le tecniche di “cloud seeding” sono state sviluppate soprattutto nei paesi interessati periodicamente dalla siccità, come avviene in alcune aree della Cina, oppure costruiti in zone desertiche come nel caso degli Emirati Arabi Uniti. Le prime esperienze negli Emirati risalgono a una trentina di anni fa e da allora il Centro nazionale di meteorologia del paese ha svolto attività di ricerca e sperimentazioni, al punto da rendere il “cloud seeding” una pratica comune per provare a ottenere più pioggia facendo volare aerei che rilasciano i sali mentre sorvolano e attraversano le nuvole.
Dopo le alluvioni degli ultimi giorni, il Centro nazionale di meteorologia dell’emirato, secondo quanto riferisce l’agenzia Bloomberg, ha dichiarato di aver seminato le nuvole il 14 e 15 aprile, ma non il 16 aprile, il giorno dell’alluvione. Se questa tecnica è stata utilizzata alla vigilia del nubifragio, meno chiaro è in quale misura abbia contribuito alla quantità inedita di pioggia caduta a Dubai. Secondo degli esperti interpellati dalla Bbc, se il “cloud seeding” ha avuto un ruolo, si è trattato di un contributo marginale ed è dunque sbagliato attribuirgli la principale responsabilità. L’attività di inseminazione viene infatti effettuata su nuvole che altrimenti non produrrebbero pioggia o ne produrrebbero molto poca, non su sistemi nuvolosi più complessi e instabili che chiaramente produrranno forti piogge. Intervenire su questi ultimi non avrebbe alcuna utilità, oltre a rivelarsi una spesa inutile, visto che produrranno comunque grandi quantità di pioggia.