C’è di tutto nelle 24 canzoni in gara nella sezione Big a Sanremo 2020. C’è la politica, con Salvini e Renzi, c’è la famiglia – tra mamme, figli e nipotini -, c’è Mefisto e ci sono gli angeli, Gesù e Buddha, chi si ubriaca e chi mangia bio, ci sono l’amore tossico e quello romantico, la mela dell’Eden e il terrorismo dell’11 settembre, bulli e bullizzati, freak e cabron. Sbarcano il reggaeton ed i ritmi carioca, ci sono chi fa Mia Martini e chi insegue il padre più famoso, c’è la nonna scatenata che si rivela rocker e un rocker che sembra un nonno rincoglionito. Ancora una volta il Festival è lo specchio del Paese. Confuso, disorientato e, soprattutto, privo di nuove idee. Che d’altro canto non potevamo aspettarci dall’uomo senza qualità Amadeus, direttore artistico di questa settantesima edizione che si svolgerà dal 4 all’8 febbraio.
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Una confusione, quella ascoltata ieri alle pre-audizioni milanesi nella sede Rai di corso Sempione, che potrebbe frastornare lo zoccolo duro della platea sanremese, la cui età va oltre i cinquant’anni. Accade così che nel caos si torni a rivalutare e preferire la classica canzone sanremese. Tale è, ad esempio, “Ho amato tutto” (voto 8), l’intensa ballata interpretata in maniera magistrale da Tosca che sembra imitare Mia Martini. È una delle poche, se non l’unica canzone che riesce a trasmettere una emozione.
Nella confusione sonora emerge il piccolo drappello di donne (soltanto 7 su 24), certamente più valorose dei colleghi uomini. A dispetto del titolo, “Tikibombom” (7) di Levante è una ballata sofferta su temi di attualità. «”Tikibombom” è il ritmo sul quale non ballano le persone che descrivo nel brano», spiega la cantante di Palagonia. «È una lettera a quattro persone: un animale stanco, un’anima indifesa, il freak della classe preso in giro perché è una femminuccia e un’anima in rivolta rappresentata da una ragazza criticata perché ha la minigonna. Critico l’omofobia, la società che vuole il maschio in un certo modo. È una questione di cultura e di educazione a partire dall’infanzia, dall’insegnare che il blu è per i maschi e il rosa per le femmine, che i primi sono forti e noi quelle deboli. E critico chi vede la donna in modo fuorviante: mai abbastanza femmina o troppo».
Vasco Rossi e Gaetano Currieri hanno cucito addosso a Irene Grandi un abito che le sta alla perfezione: “Finalmente io” (7) è un rocketto solare, in cui la cantante toscana, “da sempre arrabbiata, da sempre sbagliata”, esprime la sua gioia quando canta. Attenti poi alla vecchietta incazzata: Rita Pavone si conferma Gian Burrasca interpretando in modo grintoso “Niente (Resilienza 74)” (6.5), canzone ritmata moderna scritta dal figlio.
La mamma non può mancare in un Festival di Sanremo che si rispetti: a lei si rivolge la giovane Giordana D’Angi in “Come mia madre” (4.5), struggente ballata con un testo però un po’ scontato. E la famiglia è un altro dei temi toccato in questa edizione numero settanta. “Voglio parlarti adesso” (7.5) di Paolo Jannacci è la tenera ninna nanna di un padre al figlio: “Là fuori c’è la guerra, ma qui penso io a te, vorrei che non tremassi come me”, canta il figlio del grande e compianto Enzo accompagnandosi al pianoforte. “Il gigante” (3) esprime invece il rincitrullimento di un nonno quando nasce un nipotino. Il nonno in questione è Piero Pelù, qui in versione Cristina D’Avena piuttosto che da El Dablo: canta di castelli e fate e paragona il nipote a Gesù e al piccolo Buddha.
Tra le sorprese, la band indie dei Pinguini Tattici Nucleari. Uno squillo di trombe che cita i Beatles sinfonici annuncia “Ringo Starr” (7), divertente rhythm’n’blues nel quale si preferisce essere il batterista dei Beatles “in un mondo di John e Paul”. Anche sul fronte dei rapper le aspettative vengono sovvertite. Così all’urlo del ventunenne Anastasio che in “Rosso di rabbia” (5) si sente come una bomba ad orologeria disinnescata, migliorando dal punto di vista musicale, ma con un passo indietro nel testo, preferiamo il Rancore di “Eden” (7), che gioca con la mela da Adamo ed Eva a Biancaneve (“che dorme in Iraq”) fino all’11 settembre della Grande Mela con un rap spaziale sostenuto da un piano classicheggiante. Un poema, più che una canzone, a metà strada fra Cristicchi e Caparezza.
Il cantante mascherato Junior Cally solleverà polemiche con la sua “No grazie” (4). In un verso della canzone rap sono individuabili due Matteo della politica nazionale: “Spero che si capisca / che odio il razzista / che pensa al Paese / ma è meglio il mojito / e pure il liberista di centro sinistra / che perde partite / e rifonda il partito”, rappa. È una banale canzone da discoteca su un amore tossico “Me ne frego” (4) di Achille Lauro, che alla droga questa volta preferisce l’alcol: “Sì sono ubriaco e annego / o sì me ne frego davvero”. Elodie si affida a Mahmood: il vincitore della scorsa edizione del Festival ha scritto per lei “Andromeda” (5.5), un frullato di trap, disco dance, urban sound, elettronica, effetti speciali con una citazione di Nina Simone. Un pezzo in rischia con un pezzo in continuo mutamento, rischioso.
Poi si scende a ritroso nei gironi dell’inferno dantesco. Nel girone dei lussuriosi troviamo Elettra Lamborghini che twerka (ovvero scuote il sedere, piuttosto che cantare) in “Musica (e il resto scompare)” (3), brano con cui il reggaeton, dopo aver invaso le spiagge e le discoteche dell’estate italiana, viene sdoganato anche sul palco dell’Ariston: “Mi piace la musica fino al mattino / Faccio un casino lo stesso / Ma non bevo vino / Ridi cretino / La vita è corta per l’aperitivo”, è il contenuto. Raphael Gualazzi invece mescola ritmi cubani e atmosfere urban in “Carioca” (5.5). Ma lui, almeno, sa suonare e cantare.
Nel Limbo, fra quelli che ancora non sanno a quale categoria appartenere e cercano risposte da Sanremo c’è il messinese Alberto Urso, “navigante tra nuvole e vento” nella sua “Il sole ad Est” (4), ballata barocca romantica con ambizioni da romanza, come la voce più pop che tenorile. Più Renga che Bocelli. Più pupo che secchione è invece Riki: “Lo sappiamo entrambi” (4) è una monotona ballata adolescenziale canta con l’uso dell’autotune. Senza lo scimmione a sostenerlo, Francesco Gabbani non convince con “Viceversa” (4.5). Hanno perso l’effetto sorpresa i giochi di rime e di parole, il ritornello fischiettato è allegro, ma il testo risulta troppo prolisso per dire solo “Ti amo”. Su Enrico Nigiotti manteniamo gli stessi dubbi dell’anno scorso: che “tituli” ha vinto per partecipare tra i Big? È una inutile ballata “Baciami adesso” (3). Obliqua, curiosa, irregolare eppure una ballata tradizionale è invece “Fare rumore” (6) di Diodato, parla di un amore finito sul quale è calato un silenzio innaturale.
Tra il Limbo e la sezione successiva si piazzano Bugo e Morgan con “Sincero” (3). E, sinceramente, mi chiedo se non sarebbe stato meglio se entrambi avessero fatto “il cantante delle canzoni inglesi / così nessuno capiva che dicevo”, piuttosto di “vestirmi male e andare sempre in crisi / e invece faccio sorrisi ad ogni scemo”. Scopiazzano in modo indegno e indecoroso Franco Battiato.
Chiudiamo con un piatto di bolliti. Marco Masini non esce dal suo tradizionale cliché, urlando i bilanci personali in “Il confronto” (4). Le Vibrazioni si stringono attorno al loro cantante che nel pop beatlesiano e incolore di “Dov’è” (4.5) canta i dolori del marito tradito. Per chiudere, quasi per rispetto dell’ordine alfabetico, con “Nell’estasi o nel fango” (4) di Michele Zarrillo: se si fermasse alla prima strofa sarebbe da 7, ma quando attacca il ritornello s’inorridisce.
Per il giudizio definitivo sulle canzoni, bisogna aspettare quando i 24 Campioni saliranno sul palco dell’Ariston e cominceranno a provare con l’orchestra, che spesso può dare una marcia in più, ma anche tarpare le ali.