I libri come le persone amo scoprirli per puro caso. Non programmo mai le mie letture, e quando trovo un libro che parla alla mia anima, lo considero un incontro felice. Questa volta grazie a una preziosa edizione di “Tutte le poesie” di Kostandinos Kavafis (Donzelli, novembre 2019), mi è capitato di rileggere un autore, di cui già in passato avevo subito la suggestione, ma di cui non conoscevo l’opera nella sua complessità e integralità.
Kavafis è noto al grande pubblico italiano per le sue 154 poesie, ma qui per la prima volta la curatrice del volume, Paola Maria Minucci, propone un’edizione di tutti i suoi versi, che va dalle prime prove giovanili a quelle della maturità, che include testi già noti, 74 poesie inedite (Poesie segrete), e 27 fra le più antiche.
Kavafis si considerava un greco d’Asia, e i suoi versi ci riportano alle sorgenti di tutta la tradizione letteraria occidentale. La sua scrittura, frutto di continue rielaborazioni, ha il potere di trasportarci nelle cose e di evocare simbolicamente significati di altissimo valore universale. Il percorso della sua poesia è caratterizzato da un graduale allontanamento dalla sfera personale a una collettiva è simbolica. È questa la ragione per cui la città, che ricorre spesso nelle sue liriche, non è solo un luogo da cui partire, ma anche in cui ritornare; è uno spazio simbolico su cui è incisa in marmorea presenza la sua esistenza (La città, pag. 5):
[…] Non troverai altri luoghi, non troverai altri mari.
La città ti seguirà. Andrai vagando per le stesse
strade. Negli stessi quartieri invecchierai,
e ti farai bianco tra queste case.
Arriverai sempre a questa città. Per altri luoghi – non sperare –
Non c’è nave né strada per te.
La vita che hai sciupato
in questo buco angusto, in tutta la terra l’hai sprecata.
La poesia di Kavafis nasce da ciò che è antico, indaga ciò che è sepolto nelle zone d’ombra della sua coscienza. Lo attrae il mistero profondo dell’esistenza, ciò che coglie inaspettatamente l’uomo, l’ineluttabile. Il viaggio che compie verso le cose, i luoghi della sua Alessandria, ma anche nella storia, è in realtà un percorso dentro la sua anima, fra ciò che può essere svelato e ciò che invece deve essere taciuto. Il mondo degli dei greci per Kavafis vive ancora, non è mai morto. Le cose, i corpi, le sensazioni, alimentano il suo sguardo e il suo essere di bellezza, diventano un lievito per la sua vita ma anche per la sua poesia (Ho guardato tanto a lungo, p. 135):
Ho guardato tanto a lungo la bellezza
che la mia vista ne è piena.
Linee del corpo. Labbra rosse. Membra sensuali.
Capelli come presi da statue greche;
sempre belli, anche se spettinati,
e ricadono, un po’, sulla fronte bianca.
Il mondo di Kavafis si nutre di desideri inappagati, di ‘contatti elusi’ (come nota la Minucci), di un erotismo che nasce dalla forza del pensiero e non dalla materia, ma che non per questo è meno intenso e struggente (Mezz’ora, p. 545):
Non ti ebbi e non ti avrò
forse mai. Qualche parola, uno sfiorarsi
come al bar l’altro ieri, niente di più.
È una pena lo confesso. Ma noi dell’Arte
talvolta con la forza del pensiero, e certo solo
per un tempo breve, creiamo piaceri
che sembrano quasi fatti di materia. […]
L’ultimo approdo della poesia di Kavafis è l’avvicinamento al mondo e al dramma degli altri. Profetici ci appaiono questi bellissimi versi scritti nel lontano 1889 che ci fanno pensare alla voce dei tanti che ancora oggi muoiono nel nostro mare (Voce dal mare, p. 657):
Viene su dal mare una voce segreta-
voce che entra
dentro il cuore, lo commuove
e gli dà gioia.
È una canzone, o un lamento di quanti annegarono? –
il tragico lamento dei morti,
che per sudario hanno la fredda schiuma,
e piangono per le loro mogli, i loro figli,
i genitori, e i loro nidi vuoti,
mentre li sbatte i mare amaro […]