D’estate la mattina presto amo andare al mare. Il primo pomeriggio preferisco trascorrerlo a casa, all’ombra, sotto il pergolato a leggere. È una consuetudine che dura da anni, e anche oggi porto con me un libro: In punta di stilografica (pagine sottratte a un diario) di Vincenzo Pepe. Conosco Pepe da un decennio, e di lui apprezzo l’anglista, il fine traduttore, l’attento conoscitore della cultura napoletana, ecc. Questo libro però rivela apertamente un aspetto di lui ignoto, cioè lo scrittore e l’abile narratore, che sottotraccia, con garbo, e in maniera volutamente defilata, è probabilmente il vero ispiratore di tutta la sua vasta produzione.
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In punta di stilografica è un libro difficilmente catalogabile in un genere letterario tradizionale. Non è un romanzo, né un diario, né un libro di memorie, né un’autobiografia, ma una forma di scrittura ‘aperta’, che accanto al gusto per la narrazione accoglie anche un’attenta meditazione sul passato e sul nostro tempo. Pepe concepisce la scrittura come servizio per i contemporanei e i posteri.
La sua filosofia della penna stilografica, il capitolo con cui apre il libro, illustra bene e con chiarezza il suo modo di porsi rispetto all’esistenza: in un tempo in cui la tecnica la fa da padrona, e l’uomo pretende di poter riprodurre anche l’arte, la penna stilografica rappresenta l’autenticità, tutto ciò che di irriducibile e inspiegabile da sempre abita nel cuore dell’uomo. Ma la penna è anche tanto altro: è il trait d’union con il vissuto di Pepe, che non vive nel passato, né carica gli eventi di coloriture patetiche, ma che a quell’esperienza però ricorre per contrapporla a un presente spesso vacuo, privo di valori, del decoro dell’Italia di un tempo, povera sì ma con grande dignità.
La filosofia della penna stilografica è quindi anche una lezione di stile, un modo di porsi rispetto alla vita in maniera elegante, con grazia e sobrietà, con un sano ed equilibrato spirito riflessivo in un mondo spesso schizofrenico e amante di eccessi di ogni tipo. Fra le tante pagine che ho apprezzato di questo libro, mi sono rimaste impresse principalmente quelle dedicate ai libri, in cui lo scrittore affronta in maniera semiseria il tema della morte (p.22 e 24):
[…] Le riflessioni che in The Private Papers of Henry Ryecroft Gissing dedica al suo rapporto con la lettura, mi hanno fatto improvvisamente ricordare che alla lista delle ragioni che mi renderanno la morte molto più antipatica di quello che è, non ho mai aggiunto il dispiacere di dovermi distaccare per sempre dai miei libri. […] E devo confessare, al riguardo, che forse una delle ragioni che tanti anni fa convinsero me, tunc et semper squattrinato insegnante e terrorizzato dai debiti, ad accendere un mutuo ventennale! per l’acquisto della casa, non fu tanto la preoccupazione di assicurare un tetto ai miei figli, quanto l’ansia e il desiderio di dare ai miei libri un assetto definitivo tale che il loro apparato immunitario risultasse indefettibile. […]
Gli scrittori hanno esaltato la bellezza dei libri, ma non parlano mai di quanto è brutta la morte lontana da essi. Per Pepe invece il dispiacere arrecato dalla morte è doppio, perché dovrà separarsi anche dai suoi libri, da quegli amici che hanno nutrito la sua esistenza di ‘finzioni salutari’. È merito loro se ha trovato la stabilità di cui aveva bisogno, se il suo entusiasmo nonostante le delusioni non si è spento negli anni, e se è riuscito a combattere paure e manie. Grazie ai libri ha imparato a organizzare le sue giornate, a dialogare con il proprio io interiore, a stare bene con sé stesso, a dare un senso alla propria esistenza. I libri sono stati per lui uno schermo protettivo contro attaccabottoni, intriganti, e dei maestri insuperabili di civiltà. Lo sono stati per lui, sembra suggerirci l’autore fra le righe, e lo saranno per chiunque vuole trovare il suo vero sé e un dialogo vero con la propria interiorità.