Alcuni libri non invecchiano. Specie quando raccontano una storia che ci appartiene, che forse abbiamo voluto dimenticare, ma che fa parte delle nostre vicende nazionali. “La guerra per il Mezzogiorno” di Carmine Pinto è sicuramente uno di questi. L’ho appena terminato, e mi sembra ancora di vedere dinanzi agli occhi i protagonisti di una guerra, drammatica, che ha fatto tanti morti, e alla quale i testi scolastici ancora oggi dedicano poche pagine, ma che ci riguarda, in quanto ci aiuta a capire tanti aspetti del nostro presente. Siamo abituati a una lettura tradizionale e per alcuni versi anche preconfezionata delle vicende risorgimentali.
Pinto in questo libro, invece, partendo da quel lontano 1860, ricostruisce con dovizia di particolari e di testimonianze (senza mai indulgere nella dimostrazione di una tesi o di un’altra, ma con la lucidità e con la precisione di chi è interessato, per quanto ovviamente è possibile, alla ricerca della verità) quanto è accaduto all’indomani dell’arrivo il 6 settembre 1860 di Garibaldi a Salerno. La sera stessa di quel giorno il generale fu a Napoli e fu accolto da una folla clamorosa di gente. Il Regno delle Due Sicilie era finito, ma proprio allora cominciò la controrivoluzione, quella dei briganti, che durerà quasi per un decennio e che vedrà coinvolti in uno scontro lungo e logorante (che non interesserà la Sicilia che era stata definitivamente conquistata alla causa unitaria) gli italiani, gli stessi briganti, e i borbonici.
LEGGI ANCHE: “In punta di stilografica”: la filosofia di Vincenzo Pepe
Sarà una guerra lunga, fratricida, che sarà combattuta anche ideologicamente per la conquista del Mezzogiorno. Gli unitari negheranno sempre la matrice politica del brigantaggio, considerandoli soltanto dei criminali, i borbonici a loro volta alimenteranno alcuni miti come quello delle industrie napoletane spogliate delle proprie ricchezze dai Savoia o del colonialismo sabaudo. Pinto in questo libro non si lascia sedurre da nessuna di queste letture. Analizza il problema rifacendosi alle fonti, ricostruendo anche il tessuto antropologico e culturale del Mezzogiorno, e facendo emergere con chiarezza che il brigantaggio non era il frutto solo delle condizioni di arretratezza socioeconomica di molte aree della Campania, della Calabria, e della Puglia, ma anche di una tradizione secolare, legata a miti e a un mondo feudale, che stava scomparendo (p.260):
[…] Il brigantaggio era infatti una tradizione secolare, quasi una forma di vita riemersa ciclicamente, con i suoi rischi e le sue opportunità, e pertanto, come tutte le sedimentazioni del passato, capace di offrire una carica legittimante. […]
I briganti recuperarono miti premoderni di un passato che stava svanendo, spesso strettamente connesso all’essenza politica e sociale del mondo feudale, comprensibile solo ai loro nemici meridionali. […]
Con equilibrio, e senza mai privilegiare un aspetto rispetto a un altro, Pinto riconosce anche la matrice criminale del brigantaggio, presente accanto a quella politica e volutamente negata dagli unitari, e il collegamento con i borbonici, che da Roma, dove era in esilio Francesco II, cercavano di organizzare una controrivoluzione dall’interno, e di riprendere il controllo del Regno, che avevano appena perduto.
La guerra per il Mezzogiorno durò un decennio ed ebbe una portata non solo locale, ma coinvolse attori politici di tutta la penisola e di tutta l’Europa, e se i briganti persero fu per la loro incapacità di collegare fra loro le bande, per l’isolamento politico a livello internazionale di Francesco II, e anche perché non avevano un progetto politico, se non la restaurazione del regime borbonico, da contrapporre alla causa unitaria. Quella del brigantaggio fu, come riconosce Pinto, a conclusione del suo imponente e importante lavoro, e citando il capitano Massa, incaricato di celebrare i cinquanta anni dell’unificazione, “una storia dolorosa, oscura, priva dei colori appassionanti delle memorie risorgimentali… di italiani contro italiani”.