Come sarà strutturato, in concreto, il ministero della Transizione ecologica, affidato a Roberto Cingolani, non è ancora chiaro. L’operazione ha una sua rilevanza, perché non si esaurirà in un semplice cambio di denominazione. I passaggi in vista potrebbero comportare l’assorbimento delle competenze non solo in materia ambientale, ma anche energetica. Ma Cingolani ha già tracciato la strada del nuovo ministero: dalla decarbonizzazione all’applicazione immediata degli Accordi di Parigi, dalle energie rinnovabili fino a un nuovo modello di città.
Nei giorni scorsi Roberto Cingolani ha salutato i lettori della sua rubrica su Green&Blue, canale del gruppo Gedi dedicato ad ambiente e sostenibilità, congedandosi con le sue «priorità per l’ambiente». C’è la visione dell’esponente dell’esecutivo Draghi su alcune delle questioni più importanti che il nostro Paese è chiamato ad affrontare per attuare la transizione ecologica che ora dà il nome al suo stesso dicastero. È una visione globale più che nazionale, attraverso la quale però il ministro mette sul tavolo gli obiettivi a cui, secondo lui, bisogna puntare con massima urgenza.
Tema cruciale, alla base stessa del passaggio dal ministero dell’Ambiente a quello della Transizione ecologica, è quello della produzione e dell’accesso all’energia. Sul tema Cingolani è chiaro: «È necessario cominciare già oggi una transizione energetica verso fonti rinnovabili”». Il ministro ricorda che in tutto il mondo circa l’84% di energia viene prodotta da combustili fossili «mentre le energie rinnovabili rappresentano solamente l’11% e il nucleare il 4%». E se l’utilizzo di fonti energetiche a basse emissioni di carbonio è aumentato, questi progressi non sono ancora sufficienti a soddisfare la domanda che, in circa mezzo secolo, si è quadruplicata. Nella sua analisi globale Cingolani ricorda che «per sviluppare energia a basse emissioni di carbonio sono necessari investimenti infrastrutturali e competenze disponibili solamente nei Paesi avanzati» motivo per cui uno dei principali fattori della crescita di disuguaglianza tra nazioni è proprio la disparità di accesso all’energia.
Per mitigare i danni del riscaldamento globale è necessario, secondo il neo ministro, procedere con decisione sulla strada della decarbonizzazione, riducendo drasticamente l’emissione di gas serra nell’atmosfera. «Per fare ciò – spiega – sono necessari la volontà politica e dei meccanismi di cooperazione per garantire che tutti i Paesi svolgano il proprio ruolo». Evidentemente finora sono mancate sia l’una che l’altra, dato che siamo ancora a discutere di come far partire il taglio dei sussidi alle fonti fossili. Sarà che «la lotta al riscaldamento globale rappresenta il più classico dei problemi di azione collettiva – evidenzia il ministro – in cui la volontà di sviluppo economico, soprattutto nei Paesi emergenti, si scontra con la necessità di ridurre le emissioni inquinanti». Prova ne è l’Accordo di Parigi sottoscritto nel 2015, il cui obiettivo era quello di mantenere l’aumento della temperatura media del globo al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. Di fatto il ministro sottolinea la necessità di dare inizio quanto prima al processo di decarbonizzazione, per poter agire in maniera graduale e rispettare l’accordo del 2015.«Se si cominciassero a ridurre già da quest’anno – spiega – le emissioni globali di CO2, la comunità internazionale avrebbe tempo sino al 2040 per raggiungere la carbon neutrality».
Ripensare al futuro delle nostre città è strettamente legato al processo di decarbonizzazione. «L’urbanizzazione, di per sé, rappresenta un’opportunità, ma presenta anche un conto negativo: nella calca cittadina crescono la congestione e l’inquinamento, dovuti allo smog e alla produzione di rifiuti». Ma le città non crescono allo stesso modo. «Nell’occidente avanzato, caratterizzato già da alti tassi di urbanizzazione – spiega il ministro – la crescita degli agglomerati urbani è graduale e diffusa e si comincia a parlare di smart city che riducono l’impatto ambientale e migliorano la qualità della vita, mentre nelle zone a basso sviluppo le megalopoli crescono rapidamente e senza strumenti di pianificazione urbana».