Ritrovo fra le mie cose un libro di Antonio Spadaro. È una nitida giornata di inverno. Apro a caso le pagine. Leggo qualche rigo. Poi guardo dalla finestra la luce del sole: brilla fra gli alberi nudi.
Ritorno poi alla mia lettura. Mi immergo a tratti in un percorso articolato in sette parole: viaggio, frontiera, ring, germoglio, cose, logos, pandemia. Più che un percorso è un ‘cammino’. Parola, letteratura, richiami alla vita si alternano.
L’autore costantemente ne tiene insieme i pezzi, li riunisce, li fa combaciare, per cercare un senso, per immaginare, in un momento della storia umana, buio e critico, un futuro. Il suo sguardo è rivolto continuamente alla vita nella sua dimensione immanente e trascendente. Scava nella sua cultura ma anche nella sua esperienza di uomo e cristiano per mettere a fuoco ciò ritiene sia essenziale per vincere le tenebre della notte, di un tempo presente oscuro e difficile.
‘Pronunciare parole’, scrive Spadaro, ‘significa dire la realtà (casa, pane, cielo) o esprimere idee o sentimenti (p. 5)’. La prima è viaggio. È nota a tutti, e proprio per questo è la più difficile. È una figura che ritroviamo in tutta la cultura occidentale e non solo, e a questa categoria è legato il senso del nostro stare nel mondo (p. 9). Nel corso della storia umana è stata declinata in diversi modi. L’attenzione dello scrittore si sofferma soprattutto sul valore che ha assunto nella cultura moderna, dove è stata intesa come ‘impossibile ritorno’ (p.15):
[…] Claudio Magris, commentando L’uomo senza qualità di Robert Musil, afferma che l’odissea del personaggio non è quella del ritorno, cioè l’odissea di Ulisse che parte per ritornare a casa. L’avventura del personaggio musiliano non è circolare, non è il ritorno dello spirito a sé stesso, la conferma dell’identità ˗ della sua unità e della sua continuità – attraverso l’esperienza. […] I personaggi errabondi di Musil non possono mai tornare a casa: ne sono privi e fin dall’inizio. […]
Spadaro nelle sue analisi parte sempre o dalla sua esperienza concreta o dalla letteratura. Questa forgia l’immaginario collettivo, e ne Il cacciatore Gracco di Kafka ritrova un altro modo di intendere la metafora del viaggio. Qui non solo non si conclude ma si interrompe in ‘sentieri interrotti’. Gracco diventa ‘l’immagine della privazione della meta, e il suo ‘viaggio diventa un eterno e insignificante vagare’ (p.18). L’uomo moderno è, quindi, intrappolato in delle ‘sabbie mobili’, e non riesce a uscirne, ad andare avanti. Per modificare questa realtà serve una sapienza antica, ci vuole una ‘buona notizia’ (p.18). Bisogna rinunciare all’idea che l’uomo da solo con le sue forze possa raggiungere la meta (p. 21):
[…] La meta della ricerca non si sottrae. […] Ben Sira sottolinea anzi che il primo passo è della Sapienza che viene dall’alto e lascia aperta la via al cammino dell’uomo. […] Non è in potere dell’uomo il trovarla: è lei che si fa trovare, guida e accompagna […] La meta sta sempre sullo sfondo ma alla fine si ‘rivela’. […]
Spadaro non mira a imporre verità assolute o a dare soluzioni definitive. Al contrario in controluce, attingendo anche alla sua cultura biblica, ci prospetta un immaginario possibile. Poco a poco ci mostra una piccola fiamma. Ci indica con voce sommessa una possibile meta della nostra ricerca. Ci parla del valore di un’attesa incolmabile, di un altrove, sullo sfondo, che si rivela. La categoria di viaggio che propone è spirituale, senza mai dimenticare però la dimensione materiale. Con sapienza e intelligenza interpretativa l’autore fa suo l’insegnamento della la cultura ebraica. La condizione dell’ebreo – ci ricorda – è quella del nomade. Egli è in viaggio per un ‘luogo che non è luogo’ (p. 22), dove non ‘è possibile risiedere’, cioè verso una terra che è ‘promessa’ ma non ‘data’.
Un po’ (se ci pensiamo bene!) come ognuno noi.