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Paura in palcoscenico, un girotondo di maschere

Alla riscoperta di un classico di Hitchcock e di un arguto processo meta-teatrale, tra l’imperdonabile espediente di un flashback menzognero e l’ambivalenza prospettiva di un giallo brillante a tesi precostituita

Marco Fallanca di Marco Fallanca
Marzo 20, 2021
in Cultura
Tempo di lettura: 6 mins read
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Paura in palcoscenico, un girotondo di maschere

Il genio di Alfred Hitchcock ha esplorato una delle più elementari emozioni umane, la paura, in modo nettamente più astuto di una mera rappresentazione di scene di violenza, mostrando, invece, allo spettatore come questo potesse diventare ignara vittima di segreti, tradimenti o persino di trame governative. Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, Hitchcock siglò un contratto con la Warner Bros. per girare alcuni film con lo studio: il risultato di questo sodalizio sono stati classici come Io confesso, Il delitto perfetto e Paura in palcoscenico.

LEGGI ANCHE: Io confesso, un caso di coscienza secondo Hitchcock

Quest’ultimo – adattato da Man Running di Selwyn Jepson e che già nel titolo si attesta come un film del “maestro del brivido” – si fonda su un artificio racchiuso forse nell’immagine iniziale del sipario che si leva sulla deliziosa ambientazione londinese, sfondo ideale di questa storia, ponendo l’accento anche sull’impianto teatrale della messa in scena e dichiarando in premessa che la narrazione dei fatti non corrisponde al loro reale andamento. Si scorge subito, infatti, l’area di St. Paul, pesantemente colpita dai bombardamenti duranti la guerra, salvo poi rimandare immediatamente al dialogo in macchina tra Jane Wyman e Richard Todd. Ma lui sta mentendo, e lo spettatore casca ben presto nell’espediente del falso flashback: si vede Marlene Dietrich, e l’abito in teoria insanguinato, che va dall’amante e ne implora aiuto. A ingannare non sono le immagini ma il commento parlato dell’uomo che si presenta come un giovane innocente costretto alla fuga (su tale binario si muovevano già Il club dei 39, 1935 e Giovane e innocente, 1937).

Le chiavi di lettura dell’insolita scelta narrativa sono almeno due. La prima è un espediente brillante: di solito i flashback forniscono la spiegazione lineare di cui si ha bisogno per riuscire a seguire la trama. D’altro canto, però, inserire un flashback ingannevole la dice lunga, lunghissima sul personaggio, anche se il pubblico apprenderà si tratti di una bugia solo nel finale del film. Quel flashback, allora, costituisce una crepa nella trama o è il più geniale coup de théâtre?

Hitchcock non si rese conto, finché l’intero girato non fu completato, che in un flashback non si può mentire, trasgredendo slealmente le regole del poliziesco classico. Specie se si tratta di una sequenza esplicativa lunga tredici minuti. Ma, a quel punto, era troppo tardi per modificare l’intreccio. Se, per tutta la durata del film, l’ignaro spettatore si è convinto dell’innocenza di qualcuno e la cosa si rivela infine una menzogna, non perdonerà più il personaggio. Se, da un lato, il regista aveva ammesso che il suo più grande errore fosse in Sabotaggio – nella scena in cui il fratello più piccolo consegna la bomba con l’orologio che ticchetta e finalmente detona –, dall’altro, il falso flashback significò per lui il secondo più grave dell’intera carriera.

Eppure, è in questa scelta, nel fatto raccontato dal punto di vista del narratore poco attendibile che risiede il valore più grande dell’intera pellicola: in un’annata, il 1950, fondamentale per le narrazioni “a punti di vista” (si pensi al coevo Rashōmon di Akira Kurosawa), la versione dei fatti di un personaggio disposto a tutto pur di salvarsi costituisce una vera e propria avanguardia per i gialli moderni. Ma è solo una delle tante introdotte, a partire da quelle tecniche. C’è, infatti, il momento in cui Jonathan Cooper scende dall’auto e la cinepresa arriva apparentemente fino all’uscio di casa e lo segue per le scale; la facciata, e con essa il set cinematografico ricostruito in studio, si scompone e non lascia intravedere la porta di ingresso che si chiude alle spalle mentre l’attore allunga la mano dietro di sé, accompagnato dal sordo rumore. Chissà cosa avrebbe potuto fare Hitch con una Steadicam, una cinepresa a controllo di distanza o con la computer grafica…

Ma Paura in palcoscenico s’identifica anche con i suoi magnifici intepreti. La Wyman era all’apice della propria carriera, grande attrice comica reduce da numerose parti civettuole prima della vittoria dell’Academy Award per Johnny Belinda e del successo de Lo zoo di vetro, trasposizione cinematografica del lavoro teatrale di Tennessee Williams. Interpreta una studentessa della Royal Academy Dramatic Arts innamorata dell’indiziato numero uno, che nasconde, protegge e tenta persino di scagionare. Regala un meraviglioso personaggio quando, nel film, si trucca in modo improbabile e si camuffa da domestica per lavorare presso la star del music-hall Charlotte Inwood, primadonna ambigua, perfida e calcolatrice interpretata dalla Dietrich, “angelo azzurro” dal cuore nero, ora coperta da un velo ora avvolta da una coltre di fumo, che istiga l’amante a commettere il crimine. Indimenticabile il momento in cui la grande diva interpreta la canzone originale di Cole Porter, “The Laziest Gal in Town”: portando con sé tutto lo splendore dei suoi anni d’oro, inquadra alla perfezione il suo personaggio e lei, inimitabile, è tutt’altro che pigra, astuta e sensuale com’è nell’usare tutti gli uomini che la circondano per condurli alla perdizione. Hithcock, che le lasciò persino scegliere come posizionare le luci, la fotografa con amore e le erige un piccolo monumento interno al racconto. Il brano divenne poi un suo biglietto da visita e, nel finale, la metaforica confessione è struggente e ammaliante.

Alastair Sim e Sybil Thorndike sono davvero eccezionali, magnifici attori inglesi particolarmente adatti ai toni spensierati della commedia brillante; rimandano ai primi film inglesi del regista e sono nostalgicamente intrisi di quel genere di umorismo che rende vive quelle scene in modo buffo. Lui è uno stravagante commodoro in quiescenza, che vive in un cottage in riva al mare. Lei è la tipica madre un po’ debole di mente, presente nei suoi primi film: quella nevrotica e invalida in Marnie, quella imbalsamata in Psycho e quella neurotica in Delitto per delitto – L’altro uomo. Sono sentimenti ambivalenti e confluttuali quelli che il regista nutriva verso il ruolo materno, sempre restituito in modo poco lusinghiero.

Richard Todd, che continuò a lungo a recitare in thriller dei teatri londinesi, dipinge un superbo personaggio, che sembra non essere a posto sin dal principio, perfettamente idoneo a coprire il delitto della donna che ama. Ma quando alla fine crolla, nella scena sotto il palcoscenico, è inquietante quasi come Tony Perkins anni dopo. Michael Wilding, reduce da film con Anna Neagle e prossimo alle nozze con Elizabeth Taylor, intepreta un affascinante detective con una buona indole, “Ordinary” Smith, che finisce per innamorarsi; un personaggio decisamente ben costruito. E un piccolo ruolo lo ha anche Pat Hitchcock, che aveva iniziato a recitare a otto anni e studiava proprio all’Accademia Reale di Arte Drammatica, dove furono realizzate parte delle riprese. Guidò anche al posto di Jane Wyman nelle scene più pericolose perché il regista non voleva farle correre rischi e sapeva che la figlia amava stare al volante. Non mancano nemmeno Key Walsh e quella magnifica caratterista che era Joyce Grenfell, sempre al limite della follia o dell’isteria, in una scena puramente decorativa e fuori dal quadro – quale quella del tiro a segno – ma ugualmente un piacere inaspettato. I costumi sono una gemma firmata da Milo Anderson e Christian Dior, a partire dal corpo del reato – candido vestito insanguinato – che aleggia come come uno spettro di colpevolezza e, benché distrutto all’inizio del film, rimane oggetto onnipresente nelle ossessioni dei complici e torbidi amanti.


L’intreccio – sceneggiato da Whitfield Cook, Alma Reville e James Bridie – può anche non persuadere del tutto nei nessi logici e per la meccanica artificiosa di un giallo che non sembra sempre essere la priorità ma piccoli inserti tanto ironici quanto gustosi e un po’ di brillante intrattenimento non guastano mai. Con una cinica e umoristica meditazione sulla volubilità degli esseri umani e sulla loro capacità di calarsi in contesti e situazioni apparentemente lontani dalle loro corde pur di trovare la via per soddisfare i propri impulsi più reconditi, le dinamiche del giallo a tesi precostituita si sviluppano e si dipanano, disorientano e divertono, con la solita ambivalenza prospettica.

Il meccanismo degli equivoci e del “doppio gioco delle coppie” (due assassini e due investigatori) si inserisce in un dinamico e arguto processo meta-teatrale dove ciascuno recita la propria parte temendo continuamente di venire smascherato, in un collaudato sistema di riprese in interni che genera suspense. Il titolo si fa apprezzare per i continui dualismi fra verità e bugia, realtà e finzione, esistenza e vita teatrale, mentre Hitch non lesina inquadrature suggestive e preziosismi tecnici. Sottovalutato anche per le parole del regista negli anni successivi e messo all’angolo dallo straordinario successo di Delitto per delitto, Paura in palcoscenico cala, nel suo burrascoso e precipitoso finale, il sipario sul colpevole ma anche sul vecchio Hitchcock, precorrendo, con la complessità del suo giratondo di maschere, la figura di Norman Bates in un modo che è stato spesso dimenticato.

Tags: Alfred HitchcockMarlene DietrichPaura in palcoscenicoWarner Bros
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