Web significa “rete” e il Web è a tutti gli effetti come una rete: tutto quello che ci finisce dentro è difficile che riesca ad uscire. Ciò che viene pubblicato sul Web resta per sempre. Ma come tutelare l’interesse dell’individuo affinché i motori di ricerca, primo fra tutti Google, non ripropongano vicende ormai superate dal tempo? In Europa il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) garantisce il diritto all’oblio, noto anche come “diritto alla cancellazione”, sancito dall’articolo 17, per dare ai cittadini residenti in Ue il diritto di richiedere la rimozione dei propri dati personali online.
Il “Modulo di richiesta per la rimozione delle informazioni personali ai sensi delle leggi sulla privacy europee”, messo a disposizione da Google a partire dal 2014, nasce proprio per fronteggiare questa situazione: si tratta di un modulo denso di informazioni, da compilare con grande attenzione e dovizia di particolari, che il colosso di Mountain View potrà poi valutare, decidendo se la richiesta di rimozione è valida o meno. Innanzitutto, è bene spiegare che questo intervento può andare ad agire solo sui risultati negativi presenti nella SERP (Search Engine Results Page) di Google: sono esclusi, quindi, i risultati degli altri motori di ricerca e delle piattaforme social. E soprattutto, è essenziale sapere che non si tratta di una vera e propria “rimozione”: questo termine è utilizzato in modo improprio dato che, in realtà, quella che viene inoltrata è una richiesta di de-indicizzazione di specifiche URL. De-indicizzare significa, infatti, non che i risultati vengono del tutto cancellati, ma semplicemente che non saranno più mostrati nelle SERP per le specifiche query relative al brand o al nome della persona coinvolta.
Una procedura che, almeno in Italia, potrebbe cambiare dopo l’emendamento approvato dalla commissione Giustizia della Camera. Nella discussione sulla nuova riforma della Giustizia, il deputato Enrico Costa ha presentato un emendamento per estendere il diritto all’oblio sui motori di ricerca a chi, indagato o imputato per un reato, è poi stato assolto dai giudici. L’emendamento di Costa prevede che «il decreto di archiviazione, la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione, costituiscano titolo per l’emissione del provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati». In pratica l’assoluzione dei giudici corrisponderà all’assoluzione dei motori di ricerca.
Il diritto all’oblio è stato introdotto nel 2016 dalla normativa europea sulla tutela della Privacy, all’articolo 17 del Gdpr. Ma due anni prima il Garante spagnolo per la protezione dei dati personali ha ordinato al motore di ricerca di togliere dai suoi risultati il nome di un cittadino spagnolo che 16 anni prima era stato coinvolto in una procedura di riscossione di crediti. Il nome del cittadino in questione era stato pubblicato sul giornale “La Vanguardia” e facendo una ricerca su Google continuava a comparire associato a questo vecchio procedimento giudiziario.
Dopo questo episodio il caso arrivò anche alla Corte di giustizia dell’Unione Europea che stabilì due punti fissi. Il primo è che un motore di ricerca con sede all’estero ma operativo in Europea può essere soggetto alla legislazione europea. Il secondo è che il motore di ricerca è responsabile del trattamento dei dati personali, e quindi nel caso dello spagnolo anche della comparsa del suo nome nelle ricerche. Nel 2016, con una nota pubblicata sul blog ufficiale, Google ha esteso la possibilità di accedere al diritto all’oblio a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea.
L’art. 17 elenca una serie di motivi in presenza dei quali l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo: fra le varie ipotesi, l’interessato può chiedere la cancellazione quando i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o trattati, o quando abbia revocato il consenso al trattamento o i dati siano stati trattati illecitamente. Tuttavia, sempre l’art. 17 stabilisce che il diritto alla cancellazione non sussiste quando il trattamento dei dati è necessario per soddisfare alcune esigenze: fra queste l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione oppure a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica.
Al di là di questi principi generali, resta il problema di stabilire quando il trattamento dei dati personali risulta in concreto “necessario” per esercitare la libertà di espressione e informazione o di archiviazione nel pubblico interesse. L’ultima parola spetta sempre all’interprete, cioè all’autorità (garante privacy o giudice) chiamata a decidere se in una certa vicenda sottoposta al suo esame la persona possa legittimamente pretendere che una notizia che lo riguarda, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione. L’emendamento di Costa inserito nella Riforma della giustizia non cambia questo sbilanciamento ma contribuisce a fare chiarezza su tutti quei casi in cui Google dovrebbe intervenire sui suoi algoritmi.