Oggi porto con me nella mia passeggiata sul Lungarno gli Ultimi versi di Marina Cvetaeva. Li leggo in una giornata di settembre. Li assaporo senza fretta, guardando gli avventori che passeggiano sulla riva del fiume. Ogni tanto però distolgo lo sguardo dalle pagine del libro. Lo volgo verso l’altra riva; mi accade involontariamente, quasi a voler stemperare nei colori del giorno l’impressione, lasciata nel mio animo, dalla scrittura di questa poetessa, che è intensa, vissuta con ardore, con sacrificio estremo, e che non è azzardato considerare come un corpo a corpo con la parola e la vita.
A entrambe la poetessa non concede nulla. Ogni suo verso nasce da uno sforzo sovrumano compiuto per arginare il deserto del cuore e della parola. Ogni nuovo testo è un tentativo (in alcuni casi anche interrotto, incompiuto, quasi prometeico) di dare voce all’affanno del cuore, al non detto. Ogni sillaba che ferma sulla carta è strappata al silenzio e alla morte che sentiva incombere sulla sua esistenza caratterizzata da spostamenti, fughe, dal dramma della guerra, da rari momenti felici, delusioni, da anni bui e funesti, e infine dal ritorno in patria, dalla perdita di ogni speranza e dalla morte volontaria.
Ultimi versi è molto di più di un titolo: sta a indicare infatti il senso di un percorso, di un’esperienza che si avvia alla conclusione, una lotta tanto vana quanto ardua contro la disperazione. Testimonia in un certo senso, quasi assumendo un valore documentario, quell’atto di disperata ‘resistenza’ o ‘resilienza’ che la poetessa compie in quattro anni per lei infelicissimi e la irrimediabile sconfitta che ne consegue. Per questo motivo, cioè per questa profonda tensione umana che caratterizza la sua scrittura, per comprendere la poesia di Marina Cvetaeva bisogna imparare a leggere fra le righe; bisogna avere pazienza, bisogna leggere con lentezza. A ogni verso bisogna concedere del tempo, magari meditandolo: solo così si può entrare nel suo mondo, e a poco a poco si riesce a sentire tutta l’energia di una scrittura, anche se solo in traduzione, che si incide sulla pagina come lama d’acciaio, in perenne dissidio fra la bellezza e la brutalità della storia che con ferocia travolge ogni cosa.
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Marina, come lei stessa riconosce in versi essenziali, lapidari e incisivi, si sente in lotta ormai ‘con tutto’ (p. 35). Non è più capace di dominare il conflitto interiore che la tormenta e l’oscurità le ottenebra l’anima. La poesia però, quando riesce a dare voce al suo sentire, rappresenta per lei un momento di luce in cui si apre ancora una volta a quell’amore che è sempre al centro delle sue liriche, e che è declinato nelle sue più diverse forme: amore passione, consapevolezza che la giovinezza è finita ma anche amore per la Boemia, ormai lontana, e per il suo soggiorno parigino. Amore che in altri versi è definito fiaccola, luce, visione, lanterna che allontana le ombre e la tiene attaccata alla vita:
Splendenti così chiare
fin sul far del giorno –
chi accompagnate,
mie lanterne?Chi proteggete,
incoraggiate,
illuminate,
mie lanterne?
Accanto e in opposizione alle sue lanterne c’è però l’amara consapevolezza che dalla loro luce e dalla vita bisogna prendere congedo (p.121). Questo dramma incombe sulla sua esistenza, la affatica, la allontana negli ultimi anni della sua vita da ogni speranza. Quando finirà per prevalere, cioè quando la Cvetaeva si volgerà definitivamente al regno delle ombre per lei non ci sarà più speranza. Della sua esperienza umana, però, della sua passione smisurata, del suo amore incondizionato e di quella sovrabbondanza di sentimento con il quale ha vissuto, resta traccia in tutta la sua opera, e anche e soprattutto in questi Ultimi versi che grazie a Voland editore possiamo per la prima volta leggere in italiano. Forse proprio perché scritti con volontà caparbia di arginare il dolore e la disperazione sono ancora più preziosi e cari.