In questi giorni, per un incontro felice e inatteso, nel cuore di questa estate sempre più torrida, leggo Averno di Louise Glück. I versi di questa poetessa in questo momento, forse per una magica alchimia della parola, si sposano bene con la mia condizione d’animo e le atmosfere di penombra, percepibili già dalla lirica di apertura (Le migrazioni notturne) di tutta la silloge sembra dissolvano per qualche istante il bagliore accecante della luce estiva.
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L’universo poetico della Glück è fatto di mistero, di una realtà irreale: nei suoi versi le cose si fondono in un tutt’uno con la coscienza dell’io poetico che racconta di sé, del viaggio esistenziale della propria vita. L’Averno, il lago degli antichi, della tradizione religiosa ma anche poetica della cultura latina, nella lettura della Glück non è solo la porta di accesso all’oltretomba, ma è un non luogo; assume le caratteristiche di un margine, di una soglia estrema, appena accennata, solo evocata ma mai descritta. Non è contrariamente a come si potrebbe pensare archeologia del passato, ma è un limen di un universo dinamico, di partenze, di sofferti distacchi, di drammi ancora brucianti che la scrittura cerca di dominare per mezzo di un dialogo serrato, che l’io poetico intesse con sé stesso o con interlocutori immaginari. La poetessa vorrebbe separarsi dalle cose, anche dal paesaggio che scruta, in cui riconosce il sorbo selvatico, gli uccelli che migrano, che prefigurano le anime che si separano dai corpi e si avviano nel regno dei morti, in un aldilà indefinito, informe, non percettibile.
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Più che dalla realtà, la Glück è attratta dall’oltretomba, più che dai vivi dai morti, che non hanno bisogno dei piaceri umani per rinfrancarsi: per stare bene a loro è sufficiente non essere. In “intermóndi” fra i vivi e i morti c’è poi il dolore del quotidiano, la traccia indelebile lasciata nella storia personale della poetessa dalla violenza, che ancora brucia nella sua carne di donna prossima a un altro, definitivo passaggio (Ottobre).
Nelle altre liriche della prima sezione la Glück recupera dal passato i miti della morte e della vita legati all’Averno ma anche a Persefone e Ade. Ella compie un viaggio, tutto in prospettiva, nel regno dei morti, che resta l’aldilà possibile in cui sono confinati coloro che non ci sono più. In Prisma i versi si fanno frammentari, si compongono di lampi di immagini, di riflessioni, di momenti di analisi anche critica. Fanno da contraltare a tutto il discorso poetico precedente, al momento della visione, assumono la forma di un ‘coro’ raziocinante in cui la poetessa medita sul mito di Persefone, sul rapporto anima-corpo, su cos’è in fondo la vita, sul proprio quotidiano e sulla sua storia personale. Ella cerca di definire i contorni della sua storia, in una continua tensione con un altro indefinibile, e anche di inquadrare il suo stesso sentire. Lo fa però cercando di estraniarsi dai suoi stessi sentimenti, e provando ad attraversare il senso della perdita e della morte.
Con La stella della sera comincia la seconda parte della silloge. Qui in una sorta di rinascita la visione ritorna e anche il senso della bellezza, e la tensione poetica si mantiene alta per tutto il resto del libro. Nei versi taglienti, essenziali di Averno, si avverte il tormento e il disagio esistenziale della poetessa, così radicale da spingerla a cercare risposte nella filosofia e nel pensiero degli antichi. La vita le appare come un ‘sogno’, e la morte un viaggio dell’anima, un nascere, un morire, e poi un rinascere ancora, finché il ciclo non si interrompe. Per la poetessa le acque del lago d’Averno non nascondono nulla di spaventoso: il bisogno di un individuo di ‘morire e ritornare ancora’ si interrompe solo quando questi trova finalmente ciò che vuole. Persefone incarna dunque la vita, e non solo quella umana, che nasce, muore, e rinasce ancora (pp. 181-183):
Persefone
era abituata alla morte. Ora sempre e poi sempre
sua madre la trascina di nuovo fuori-Devi chiederti:
i fiori sono veri? SePersefone «ritorna » sarà
per una di due ragioni:o non era morta o
viene usata per sostenere una finzione-Penso di poter ricordare
l’essere morta. Molte volte, d’inverno,
ho avvicinato Zeus. Dimmi, gli chiedevo,
come posso tollerare la terra?E lui diceva:
tra poco tempo sarai di nuovo qui.
E nell’intervallodimenticherai tutto:
quei campi di ghiaccio saranno
i prati dell’Eliso.
La Glück, per paradosso, sfiorando le grigie rive del regno dei morti ci insegna qualcosa sulla vita. Ci insegna che non c’è nulla da temere dalla morte, che non può fare male più di quanto fa a volte male la vita (p.27). Ci insegna a guardarla con occhi diversi, cioè con uno sguardo sempre rivolto all’altrove, e a uscire, riscoprendo il valore della filosofia e del più autentico pensiero degli antichi, dagli angusti confini di un’esistenza pensata secondo l’etica del consumismo e del vuoto materialismo della società moderna.