Ogni giorno aprendo il giornale troviamo notizia di una donna uccisa per mano di un uomo. Tutto perché non si rassegna alla fine del rapporto e al no di una donna che non ci sta più. Molte volte l’omicidio, anzi il femminicidio, si consuma dopo che la vittima ha ripetutamente denunciato l’uomo e ha cercato di proteggersi in ogni modo possibile; altre volte, invece, la violenza ha una forma strettamente privata tra le mura di casa, prolungandosi per settimane o mesi, concludendosi nel modo più feroce possibile. La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il 25 novembre, vuole richiamare l’attenzione su questa strage che ha consumato 109 vittime dall’inizio dell’anno.
La Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è stata istituita nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la quale ha sancito l’internazionalizzazione della data del 25 novembre per commemorare le donne vittime di violenza di genere. Secondo l’Articolo 1 della Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne, emanata dall’Assemblea Generale nel 1993, la violenza contro le donne è «qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata». E nella stessa dichiarazione si riconosce la matrice storica, sociale e culturale della violenza di genere: «Il femminicidio è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione della donna».
Questa data è stata scelta in memoria delle sorelle Mirabal, attiviste politiche massacrate il 25 novembre del 1960 a Malcedo, Repubblica Dominicana, per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo: un crimine diventato tristemente “simbolico” per modalità e contesto in cui è stato compiuto. Le tre donne, Patria Mercedes, María Argentina Minerva e Antonia María Teresa Mirabal, stavano andando a far visita ai loro mariti in prigione (detenuti politici perché, come loro, erano oppositori del regime), furono bloccate e rapite sulla strada da agenti del Servizio di informazione. Portate in un luogo nascosto nelle vicinanze furono stuprate, torturate, massacrate a colpi di bastone e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente. Nel 1981, durante il primo incontro femminista latinoamericano e caraibico a Bogotà, in Colombia, fu deciso di celebrare il 25 novembre come la Giornata internazionale della violenza contro le donne. Dieci anni dopo, nel 1991, il Center for Global Leadership of Women (CWGL) avviò la Campagna dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, proponendo attività dal 25 novembre al 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani. Nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne ufficializzando la data scelta dalle attiviste latinoamericane.
Le scarpe rosse in tutto il mondo le scarpe rosse sono diventate un simbolo per denunciare le vittime di femminicidio amplificando la forte intuizione di un’artista messicana, Elina Chauvet, che nel 2009 realizzò l’installazione “Zapatos rojos”, ossia “Scarpette rosse”: scarpe da donna di colore rosso o dipinte di rosso, sistemate per le strade, nelle piazze, vicino ai monumenti delle città per dire stop alla violenza di genere. Scarpe raccolte attraverso un tam tam di associazioni o portate da semplici cittadine. Chauvet voleva denunciare i femminicidi compiuti a Ciudad Juàrez, cittadina nel nord del Messico al confine con gli Usa, dove stupri e omicidi si sono moltiplicati nei ultimi decenni.
Quella della panchina rossa è invece una simbologia nata in Italia. Il progetto “La Panchina rossa” è stato lanciato dagli Stati Generali delle Donne ed è partito per la prima volta il 18 settembre 2016 per iniziativa del Comune di Lomello. In poco tempo è diventato un passaparola per tutti ed è rivolto ai Comuni, alle associazioni, alle scuole e alle imprese di tutta Italia. Ormai sono decine e decine i Comuni interessati che in occasione del 25 novembre collocheranno una panchina rossa in luoghi significativi per la cittadinanza. Sulla panchina è di solito posta una targa che ne spiega la finalità, un riferimento al numero antiviolenza, il 1522, e in alcune zone sono stati anche aggiunti i nomi delle donne uccise in quel territorio.
Si parla esplicitamente di violenza contro le donne perché sono la stragrande maggioranza delle vittime delle violenze di genere, ovvero tutti gli abusi, che siano psicologici, fisici o sessuali che riguardano tutte le persone discriminate in base al genere. Rientrano, quindi, in questa forma di violenza anche i reati persecutori come lo stalking, le molestie, le aggressioni, lo stupro e il femminicidio. Come precisa la convenzione di Istambul, l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Esistono forme di violenza che solo le donne subiscono (aborto forzato, mutilazione genitale femminile), o che le donne sperimentano molto più spesso degli uomini (violenza sessuale e stupro, stalking, molestie sessuali, violenza domestica, matrimonio forzato, sterilizzazione forzata). Non esiste ancora in Italia una legge che inasprisca le pene per chi commette atti discriminatori o violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, o sull’identità di genere, i cosidddetti crimini di odio contro persone per il solo fatto di appartenere a un determinato gruppo sociale come richiederebbe la convenzione di Istanbul ratificata anche dall’Italia. L’iter di approvazione del disegno di legge Zan, infatti, è stato bloccato al Senato nell’ottobre scorso.
La convenzione di Istambul è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante, per i 47 paesi che lo hanno ratificato dieci anni fa, sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Gli Stati che aderiscono al trattato sono obbligati a creare servizi di protezione e supporto per contrastare la violenza contro le donne, come ad esempio, un adeguato numero di rifugi, centri antiviolenza, linee telefoniche gratuite 24 ore su 24, consulenza psicologica e assistenza medica per vittime di violenza. Il trattato invita inoltre le autorità a garantire l’educazione all’uguaglianza di genere, alla sessualità e alle relazioni sane. Un elemento chiave della Convenzione di Istanbul è l’obbligo per gli Stati di attuare le sue disposizioni senza alcuna discriminazione. Le donne lesbiche, bisessuali, transessuali e intersessuali che affrontano pregiudizi e ostilità radicati profondamente in tutta Europa hanno, quindi, diritto alla protezione e al risarcimento ai sensi di questo trattato, così come chiunque sia sottoposto a violenza domestica. Nel marzo scorso la Turchia, il primo Paese che ha firmato la Convenzione, decide di uscirne. Altri paesi, come la Bulgaria, la Slovacchia e la Polonia hanno rigettato, o stanno per farlo, la Convenzione perché la giudicano incostituzionale.
Una delle manifestazioni più diffuse della violenza di genere è la violenza domestica. La Convenzione di Istambul precisa che con sotto questa definizione vanno «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».
La legge sulla violenza sessuale in Italia in cui si riconosce lo stupro un reato contro la persona e non più contro la morale è datata 1996 (Legge n°66). Vengono abrogati i reati di “violenza carnale” e di “atti di libidine violenti” (la differenza stava nel fatto che il primo prevedeva il coito e il secondo no e quindi il primo era punito più severamente) per parlare solo di “violenza sessuale”, che viene definita, nell’articolo 609-bis, il reato di chi «con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringa taluno a compiere o subire atti sessuali» e di chi «induca un altro soggetto a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». Nel 2009, per decreto legge, entra nel Codice penale anche il reato di stalking, ovvero gli atti persecutori.
Quando un omicidio può essere definito femminicidio? Nella risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 si definisce così la «morte violenta dipesa da motivi di genere». In Italia, la Commissione parlamentare sul femminicidio ha aggiunto tutti i casi «in cui l’uomo ha ucciso le figlie della donna con l’unica finalità di punire lei». Dietro questi crimini c’è una cultura di violenza e sopraffazione, l’eredità più deleteria di una mentalità patriarcale che difficile da estirpare. Del resto, fino al 1975 è stato in vigore l’articolo 144 del Codice Civile, quello della cosiddetta potestà maritale che prevedeva: «Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza».
Un passo importante per punire la violenza di genere in Italia è stata l’introduzione della legge 69, chiamata Codice rosso e approvata il 25 luglio 2019: 21 articoli in cui si modificano e rinnovano quelle parti del codice penale e del codice di procedura penale in cui si parla di violenza domestica e di genere e delle loro sanzioni. In primis si interviene sul fattore «tempo», cruciale nei casi di violenza, e viene velocizzato l’avvio del procedimento penale per i reati di maltrattamento, stalking e violenza sessuale. La novità più importante è l’introduzione di quattro nuovi reati: delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (il cosiddetto revenge porn), reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (come le deturpazioni con l’acido), reato di costrizione o induzione al matrimonio e infine violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Inoltre il codice rosso prevede l’inasprimento di alcune sanzioni per i reati di violenza sessuale e di violenza domestica e stalking.
Dall’inizio del 2021 le vittime di femminicidio in Italia sono state 93, praticamente due a settimana: 63 di queste sono state vittime del partner o ex partner. Le donne uccise in ambito familiare/affettivo sono state 111 nel 2018, 94 nel 2019 e 99 nel 2020. Quasi una vittima ogni 3 giorni e mezzo. In tutta Europa, nel 2019 (dati Eurostat), sono state uccise 1.421 donne, una ogni quattro giorni, una ogni sei ore: 285 in Francia, 276 in Germania, 126 in Spagna e 111 nel nostro Paese. In Italia, secondo un report Istat il 77,6% delle donne vittime di femminicidio nel 2020 è stata uccisa da un partner o da un parente. Una percentuale che, guardando ai mesi di marzo e aprile 2020 ha raggiunto rispettivamente il 90,9% e l’85,7% a dimostrazione che la pandemia e il lockdown hanno avuto effetti devastanti per le donne che già vivevano in situazioni di abusi e sottomissione psicologica.