Guardatelo l’ultimo Sorrentino. È stata la mano di Dio. O forse quella di Paolo. E dopo la decadenza di Roma viene la poesia delle immagini, la meraviglia di una Napoli onnipresente, un’altalena emotiva tra sogni e passioni, amori e tradimenti, rabbia e ironia, dolore e speranza. Un tour dell’anima con il quale il regista si guarda indietro, esorcizzando un dolore intimo e profondo, e paga un antico debito con la sua terra, tra stereotipi, conflitti e contraddizioni raccontate in modo sublime.
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C’è una fotografia avvolgente, l’arrivo e le punizioni in allenamento di Maradona con il suo barrilete cosmico all’Inghilterra, i contrabbandieri di sigarette sui motoscafi, Capri deserta, le grazie della Ranieri, San Gennaro e ‘o munaciello, la Sciara del Fuoco, Napule è di Pinuccio in un finale mai troppo didascalico. Ci sono gli anni ’80 e un romantico fischio d’intesa, la televisione senza telecomando tra le gioie e i turbamenti di una famiglia convenzionale e di un’adolescenza solitaria, un senso di vuoto e di abbandono, le consolazioni dell’arte, la ricerca di una strada per il futuro. “Non me li hanno fatti vedere” come sintesi di un dolore eterno, di un lutto inconsolabile forse elaborato: sei parole che riaprono una ferita profonda ventitré anni. C’è soprattutto il racconto elegante di se stesso, un autobiografia per immagini e i perché dei suoi film; ed è il motivo per cui, a Paolo, per la prima volta gli si vuole bene davvero, per aver dato un senso a tutto.
Un cinema di risate e dramma – senza troppi fronzoli, diverso da quello cui ci ha abituati – quanto di più vicino alla vita. A suo modo, magnifico. I colori, le forme, i tagli e l’importanza degli irregolari: zia Patrizia, Fellini, Capuano, El Pibe de Oro. Perché Dio per scrivere ama usare anche le righe storte. Il talento è il mezzo universale con il quale Sorrentino rivela e scava dentro ambivalenze ontologiche alleviate soltanto da un invito alla risilienza: “non ti disunire”.
La bellezza c’è. Come quella malinconica e struggente di inedite visuali e atipiche vedute partenopee che restituiscono l’identità pura di una terra di passioni e amare verità, ricca di vizi, tic e personaggi sui generis come quelli dalle facce stereotipate riunite intorno alla tavola imbandita di un pranzo meridionale. Il regista sveste i panni di Sorrentino e indossa quelli di Paolo, senza gigioneggiare troppo con la sua estetica dietro la macchina da presa e confezionando un prodotto sincero e allegorico al punto giusto.
È indubbiamente un fiore all’occhiello anche del catalogo Netflix, colosso da 210 milioni di abbonati in tutto il mondo, che assicura la visione collettiva sempre più dedita allo streaming ma anche un bel biglietto da visita all’estero per la grande bellezza del cinema italiano, anche in vista della stagione dei premi. E al New York Times che nel lodarlo – coniando persino il termine “estetizzatore” – lo ha definito sfacciato e compulsivo nonché capace di redimere l’orrore della realtà alchimizzandola in bellezza, verrebbe da rispondere che non sappiamo se questo sia finora il suo miglior film. Ma ne esce certamente un racconto di formazione delicato, intimo, struggente e onirico, con la giusta dose di lirismo e di grottesco. Quand’anche il suo autore avesse fatto un film per se stesso, se lo potrebbe senz’altro permettere. Quand’è che abbiamo cominciato anche noi ad essere così assertivi? Con la maturità del suo decimo lungometraggio, operando per sottrazione, sembra aver scansato opportunamente il manierismo ed essergli tornata la voglia di sentirsi dire “che bel film hai fatto”, o non solo “ma quanto sei bravo”. E qui si è contenti per lui. E soprattutto per noi.
Perché è il Sorrentino più intimo, umano, commovente, drammatico e sensuale. In una parola: personale. Un film bellissimo. Che fa male. Ma bellissimo. Perché i ricordi sono vita e perché ha ragione lui: la realtà è scadente.