«Preparatevi per l’Amore. Elogiatelo!… Dio cavalca lassù in un cielo ordinario». Nick Cave apre il suo libro di canzoni sacre chiamando a raccolta con Get ready for Love la sua popolosa parrocchia. Settemila persone, d’ogni età, venute da tutto il Sud per la prima tappa al Medimex di Taranto del tour nazionale del poeta rock australiano (sarà poi all’Arena di Verona il 4 luglio). È l’inizio di un rito tra il sacro e il profano, tra il rock e la Bibbia, tra il punk e il gospel, tra una storia horror e il Libro dei Salmi, tra incubi e sogni mistici, tra La terra desolata e Cocksucker blues, tra Nosferatu e Marilyn Monroe e chiunque altro sia affogato nel suo stesso malessere.
Il sessantaquattrenne australiano è alla guida di una setta religiosa denominata The Bad Seeds (i semi cattivi): cinque musicisti con l’aggiunta di un coro black formato da due voci femminili e una baritonale. Vestito con abito, gilet e camicia bianca, Nick Cave dà l’anima sul palco. Salta da un lato all’altro, si protende verso i suoi fan, stringe le mani, li guarda negli occhi, punta dritto al loro cuore: «Boom, boom, boom», ripete battendosi il petto con il pugno, mentre dalla platea vengono lanciati fiori, lettere, disegni, ritratti. Canta sempre in contatto con gli spettatori, come se fosse in comunione con loro. Si accovaccia, s’inginocchia, posa in posizione di crocifissione e celebra la potenza e i misteri della fede come un indemoniato, fino a camminare sul pubblico. L’ensemble non è un culto, ma sottomettersi al suo rapimento collettivo è meglio della chiesa.
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Se Nick Cave porta la poesia e l’esuberanza del frontman, Warren Ellis, la sua fedele spalla australiana, è come il motore dietro le quinte, che si contorce, ruota su se stesso, si piega, saltella con tutta l’energia di un derviscio roteante. Le capacità ipnotizzanti di Ellis con una vasta gamma di strumenti (chitarra, violino, tastiere, solo per citarne tre) lo hanno visto guadagnarsi la reputazione di uno dei musicisti più pieni di sentimento e abili del pianeta. Dopo quasi tre decenni insieme, la loro è una delle collaborazioni più indelebili e infrangibili della musica rock.
I due sono tutto giunti e tendini. Nick Cave è un sistema nervoso che va avanti a rime e fantasmi. I fantasmi svolazzano nella notte tarantina, ululano tra le parole e le fanno rintoccare. Le mani di Warren Ellis sul violino creano mulini a vento intorno alla sua barba di Gandalf, mentre chiude gli occhi e canta, completamente estasiato. Nick Cave canta con una voce che non si confonde. Come Bob Dylan, Leonard Cohen, Kurt Cobain. La sua è profonda, a volte gutturale e contiene il “dramma” nemmeno fosse un interprete scespiriano: anzi, tanti diversi drammi esistenziali, intrecciati tra loro in modo inestricabile.
Punk nell’iniziale Get ready for Love, gospel nella seguente There She Goes, My Beautiful World, apocalittico nella interpretazione indimenticabile di From Her To Eternity. La diga tra pubblico e icona si rompe, la passione tracima e l’abbraccio, incredulo, tra il cantante e i fan è grande, enorme. Il fotogramma simbolo dell’emozionante e splendido show di Nick Cave è quello finale, quando saluta i suoi fedelissimi con i versi di Ghosteen Speaks: «Si sono riuniti per lui, per restare al suo fianco nel momento del dolore».
Nick Cave tante volte è sembrato annegare. Prima nei suoi abusi (l’eroina che lo stava distruggendo negli Ottanta). Poi per la scomparsa del piccolo Arthur, nel 2015, caduto da una scogliera a 15 anni, che l’aveva costretto a lasciare Brighton, a due passi dal luogo in cui era morto il suo ragazzo, per trasferirsi a Los Angeles e cercare di sfuggire al dolore. Infine, proprio quando sembrava aver elaborato il lutto con due album straordinari, elegiaci, strazianti e bellissimi, Ghosteen e Carnage, l’amaro destino è tornato a bussare alla porta dell’artista: agli inizi dello scorso maggio la tragedia della perdita di un figlio si è rinnovata, con la scomparsa del secondogenito Jethro, nato da una relazione con la modella Beau Lazenby nel 1991.
Oggi più di ieri, Cave ha bisogno dei suoi fan, devoti e appassionati. Sembra comunicare il suo dolore con empatia, quasi alle lacrime. Poi però sterza, e il concerto accelera. È come trovarsi su una montagna russa di emozioni. È una corsa non adatta ai deboli di cuore. Children fa da cuscinetto nell’accoppiata dell’età dell’oro From Her to Eternity e Tupelo per poi ritornare all’attualità con Jubilee Street. Un “re Lucertola” meno sensuale rispetto a Jim Morrison, un po’ Elvis e un po’ Jagger illuminati dallo Spirito Santo, Nick Cave dimostra che può dare ancor oggi lezioni di punk e rock’n’roll a centinaia di band che potrebbero essere formate da suoi eventuali nipoti. Procede in un delicato equilibrio tra la produzione più recente e i classici: la sempre toccante Into My Arms e la sofferta I Need You, suonata da solo al piano, la scespiriana Mercy Seat e la struggente The Ship Song. Spinge ancora sul pedale dell’acceleratore con Red Right Hand, Higgs Boson Blues e Vortex.
«Ok, sembra un’idea stupida», avvisa Cave. «Ma in un certo senso funziona se ci metti il cuore, come la maggior parte delle cose… Boom, boom, boom». E lui, domenica sera, nel suo concerto a Taranto, il cuore lo ha messo sicuramente. Boom, boom, boom.