Inciampa sulla guerra in Ucraina, la relazione politica tra M5s e Luigi Di Maio. Un’avventura lunga quasi 15 anni, ma per il giovane parlamentare campano, pur sempre al secondo mandato, sembrano tanti di più: dagli esordi nel meetup di Pomigliano d’Arco a pupillo di Beppe Grillo, a cui il cofondatore affidò nel 2017 la leadership del suo Movimento, fino a una possibile rottura per le posizioni diverse sull’invio di armi all’Ucraina.
«Mi attaccano con odio e livore e, invece di fare autocritica, mettono in difficoltà il governo in Europa». Luigi Di Maio mette sul banco degli imputati i dirigenti del suo stesso partito, con in testa quel Giuseppe Conte che proprio lui portò sullo scranno più alto di Palazzo Chigi. «Mi accusano di essere atlantista ed europeista. Lasciatemi dire, da ministro degli Esteri, che davanti a questa terribile guerra rivendico con orgoglio di essere atlantista ed europeista. Ricordo che abbiamo precise responsabilità: in ballo c’è il futuro dell’Italia e dell’Europa».
La sua non è soltanto una netta presa di posizione in difesa dell’Ucraina e delle alleanze internazionali del Paese, né solo la cartina di tornasole di una battaglia interna al suo partito. È l’approdo di un percorso, una sorta di manifesto del nuovo Di Maio, che si differenzia e rifiuta di allinearsi alle manovre populiste e disperate di chi, nel Movimento 5 Stelle, pensa che si possano recuperare i consensi perduti giocando sul diritto all’autodeterminazione degli ucraini, che resistono all’invasione russa. E per farlo è disposto a combattere. Di Maio è ora a un bivio: andarsene, o forse essere cacciato, o magari spuntarla.
Ieri notte il Consiglio nazionale M5s si è riunito via zoom con Giuseppe Conte, ma per il momento non si è parlato di espulsione del ministro degli Esteri. Anche se ormai, la scissione è nei fatti. A esporsi pubblicamente è stato Roberto Fico, presidente della Camera e uno degli storici esponenti dei 5 stelle: «Siamo arrabbiati e delusi – ha detto – Noi contro la Nato? È una stupidaggine. Ha parlato di posizioni che nel Movimento non esistono»
Un epilogo che per Di Maio arriva a due anni dalle dimissioni come capo politico del M5s. Era il 22 gennaio 2020. Ha pagato cari gli errori: la richiesta di impeachment per Mattarella, l’innamoramento per i gilet gialli, il poco equilibrio sulla Cina, il giustizialismo della prima ora, la fratellanza con Salvini, la povertà abolita affacciandosi al balcone.
Ma la sua carriera politica inizia molto tempo prima, nel 2007, all’apertura del primo meetup M5s nella sua città, Pomigliano d’Arco. I primi passi però non sono fortunati. Quando si candida come consigliere comunale nel 2010, incassa 59 voti. L’ostinazione però non gli manca, da semisconosciuto vince le parlamentarie che, nell’anno magico del Movimento, lo portano a Montecitorio. Il 21 marzo 2013 Di Maio, da ragazzo semi sconosciuto di Pomigliano d’Arco, viene eletto vicepresidente della Camera (il più giovane della storia, a 26 anni). In un movimento nato con il motto “uno vale uno”, quell’incarico di prestigio lo porta inevitabilmente a emergere. L’atteggiamento pacato spingono Grillo a definirlo un “politico” rispetto a figure più rivoluzionarie come quella di Alessandro Di Battista. Sarà a Di Maio che Grillo affiderà la guida politica nel 2016, confermata con voto bulgaro su Rousseau.
Le elezione politiche del 4 marzo 2018 sono un trionfo per il M5S, ma bisogna scendere a patti con le altre forze politiche, in primis la Lega di Matteo Salvini, altro vincitore delle elezioni. Nasce il governo giallo-verde: Di Maio fa un passo indietro dalla premiership, ceduta a Giuseppe Conte, e diventa vicepremier e ministro dello Sviluppo e del Lavoro. Dopo la caduta del governo Conte I, nel 2019, inizia a saldarsi l’intesa con Pd. Segue il fuoco amico, il gelo di Grillo e il passo indietro dalla leadership del Movimento nel 2020. Ma la rinascita istituzionale è dietro l’angolo e coincide con l’approdo alla Farnesina nel 2019 sotto il Conte bis e con poi la conferma due anni dopo quando a palazzo Chigi arriva Mario Draghi. Ma nel Movimento le cose non migliorano, anzi va sempre peggio. Fino alla resa dei conti che sembra inevitabile.