Al di là di percentuali e numeri, il vero il vero sconfitto di queste elezioni è Mario Draghi. Ha eroso il consenso di chi lo ha sostenuto. Solo i pentastellati si sono sfilati giusto in tempo per evitare la débâcle: la fuga dal draghismo verso il populismo delle origini ha rivitalizzato il M5s di Conte. Per contro la Lega ha pagato un tributo altissimo. Il Nord Est produttivo le ha voltato le spalle: troppe incertezze sul quadro economico, troppo timidi i sostegni.
Che il presidente del Consiglio sia stato bocciato dall’elettorato italiano, anche o soprattutto da quelli che non hanno votato, sta nei numeri. L’astensione ormai patologica dimostra che le manovre di Palazzo, quelle che hanno consentito di governarci per dieci anni senza consenso e hanno prodotto i governi tecnici, hanno distrutto il credo democratico del Paese.
Draghi ha fatto il resto. Porta, e ormai da moltissimi anni, la responsabilità della politica economica. È stato direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001, governatore della Banca d’Italia dal 2006 al 2011, capo dell’Eurotower dal 2011 al 2019. Si dovrà pur verificare prima o poi se le privatizzazioni da lui inaugurate e gestite siano state davvero un bene; se partite come il Monte dei Paschi non gli possano essere rimproverate; si dovrà considerare se il «whatever it takes» non ci presenti oggi il conto sottoforma di inflazione. Probabilmente sono dubbi che si sono appalesati nel voto ampiamente condizionato dalla crisi incombente.
E chi si è intestato L’agenda Draghi è stato penalizzato alle urne. Il Pd ha ribadito il suo totale appiattimento su Draghi e sull’Europa e ha sbattuto contro un muro d’indifferenza se non addirittura di ostilità. Il terzo Polo lo ha riproposto per un bis a Palazzo Chigi e non ha sfondato. Anzi Carlo Calenda ed Emma Bonino, nel loro collegio uninominale romano sono stati asfaltati dal candidato di centrodestra.
La Lega paga il prezzo più alto per la sua partecipazione al governo Draghi. Nel 2018 aveva il 17,37%, stavolta arriva a malapena all’8,8% . C’è un flusso del 40% dei suoi voti riversati a Giorgia Meloni. In Veneto, il regno di Luca Zaia, Meloni doppia i voti leghisti. In Lombardia culla prima di Forza Italia e poi della Lega, FdI è il primo partito. Il Nord produttivo ha detto nell’urna no alla politica economica di Draghi . La tanto evocata Lega dei «governatori» Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e Attilio Fonta n a non ha tirato affatto: lo scontento degli elettori leghisti per la partecipazione al governo Draghi ha superato e di gran lunga l’apprezzamento per l’azione amministrativa esercitata da costoro sui territori.
Per contro il M5s, appena consumato lo scisma di Luigi Di Maio, ha potuto ripigliare l’anima populista pentastellata e trasformarsi nella Lega del Sud con la promessa del Reddito di cittadinanza. Si pensava di frantumare i 5 stelle dopo il gran rifiuto al campo largo proposto da Enrico Letta, ma Giuseppe Conte che, pur governando l’Italia con Salvini e Di Maio al suo fianco e poi sostenendo la nascita del governo Draghi, ha mostrato che sfilarsi al momento giusto e posizionarsi fuori da qualsiasi – apparente – tentativo di costruzione di una larga intesa può ridarti quello che proprio il governo ha rischiato di toglierti.