Siamo in una cucina qualunque. Una donna di mezza età parla rivolta alla macchina da presa. Si chiama Gwen. Ha un nome comune, una vita comune. È lei stessa che racconta la sua storia in una insolita combinazione di vita quotidiana e tragico, di scrittura teatrale e sceneggiatura televisiva. È il suo sguardo che inquadra le cose, il figlio che si tira su i pantaloni. È lei che ci informa, quasi come se ci porgesse un referto della sua anima, che si è innamorata del figlio. Non è un’eroina tragica; al contrario è una donna qualunque, di estrazione sociale piccolo-borghese che per una pura fatalità si è trovata dall’altra parte. Senza volerlo è entrata a fare parte di quella categoria che la società considera malati, reietti, insomma è fra coloro che per una ragione o per un’altra sono fuori dal tessuto sociale.
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Gwen varca quella soglia senza accorgersene. Non è una sua scelta. Accade e basta e si ritrova a essere ciò che non vorrebbe mai essere. Nella sua esistenza questo episodio, di cui lei è drammaticamente consapevole, segna un momento di non ritorno, determina una cesura che non riuscirà più a ricucire. I luoghi amati, le relazioni familiari da quel momento cambiano. Ma soprattutto cambia, nel momento in cui confessa la sua passione, il modo in cui gli altri la guardano. Il quotidiano diventa per lei una prigione in cui è costretta a scontare una diversità che non ha scelto. È una donna qualunque, una delle tante, non dovrebbe provare ciò che prova, eppure niente, neanche i medicinali possono nulla contro la passione che si è impossessata del suo essere.
La novità di questo monologo di Bennet credo sia proprio nell’uso che fa del quotidiano. Sono i grigi luoghi della vita di ogni giorno la scena su cui si svolge il dramma di Gwen, che deve lottare fra la consapevolezza che la passione che la anima è mostruosa e insana e la mediocrità della vita borghese che le ricorda la sua condizione di donna anonima, una fra le tante, che dovrebbe avere altri pensieri e occupazioni. Glielo ricordano tutti: il figlio, la figlia, il marito, e anche il medico che la cura nell’ospedale dove è stata ricoverata. Nessuno di loro però riesce a entrare in maniera autentica in relazione con lei, con il suo dramma, e a capirla. La donna resta sola con la consapevolezza che è ciò che non dovrebbe essere, e che nessuna medicina può farla ritornare quella di prima (p.38):
[…] Quindi adesso bisogna dimenticare e passare oltre. Bisogna voltare pagina.
Non dico niente, ma io non dimentico; possono darmi quello che vogliono.
Un dottore mi ha detto: «Una brava signora della sua età non deve pensare a queste cose».
Però ci ho pensato.
E (qui le si incrina la voce) ci penso.
L’altarino, il secondo monologo, ha per protagonista sempre una donna: si chiama Lorna e racconta quello che ha provato dopo la morte del marito, un motociclista, in un incidente stradale. Lei costruisce per lui (è una situazione quasi surreale) un altarino sul posto dell’incidente. La scena nella sua luce inquietante è la strada dove lei scopre che il marito, che aveva tanto amato e dal quale pensava di essere amata, è in realtà un’altra persona; lei finge di ignorare la verità, anche dinanzi all’evidenza dei fatti (p.53):
[…] «Suo marito ha mai trasportato un passeggero? Qualcuno sul sellino posteriore». Gli ho detto: «Mio marito non conosceva nessuno. Sarei stata io, nel caso, quella che doveva sedersi dietro. Perché?». Dice: «Be’, sa… nel bauletto aveva un secondo casco».
La finzione e l’inganno sono per la donna necessari per continuare a vivere. È il suo morboso e per certi versi assurdo attaccamento a una realtà che non è mai esistita il motore stesso della sua esistenza. Anche Lorna come la protagonista del precedente monologo è una donna qualunque, comune. Anche lei fa esperienza però di qualcosa di eroico. È eroico, infatti, l’amore che la lega al marito morto e il modo in cui vuole tenere in vita attraverso la costruzione di un altarino il legame con lui. È eroica la sua solitudine, il modo in cui scopre una realtà che non voleva conoscere, e il dubbio che si insinua alla fine della pièce di non aver davvero voluto conoscere prima come stavano effettivamente le cose.
Nella loro semplicità Lorna e Gwen parlano a tutti noi: ci ricordano che anche noi potremmo scoprire una parte del nostro essere che va contro le regole della società e provare la dura esperienza di essere esclusi o considerati malati, e che la passione e le illusioni possono attecchire anche nella grigia realtà del mondo in cui viviamo. Possono sopravvivere in noi nonostante la banalità e la crudezza del presente.