La corsa ai farmaci per Covid e influenza, ora che i due virus sono al loro picco stagionale, sta provocando difficoltà a reperire alcuni medicinali. Come di consueto, nei mesi invernali si registra un assalto alle farmacie per l’acquisto di anti-infiammatori, anti-piretici e altri preparati di uso comune. Quest’anno però sta facendo la sua parte anche un’inedita mancanza di forniture, sia per quanto riguarda i principi attivi provenienti dalla Cina, sia i materiali di confezionamento.
E lo conferma il fatto che è stato messo in piedi un tavolo di lavoro permanente, controlli e misure per fermare la carenza di farmaci. Questa la risposta del ministro della Salute Orazio Schillaci a un problema «arrivato a livelli mai visti neanche in piena emergenza Covid» secondo i distributori. Oltre 3.000 specialità sono temporaneamente mancanti, tra cui anche molti di uso comune, dal Brufen alla Tachipirina. Farmacisti e industrie però rassicurano: i farmaci ci sono e se ne manca qualcuno ci si può far prescrivere uno equivalente (il generico). Peccato che la loro prescrizione e vendita non decolla: rappresentano ancora solo il 30% del mercato, una percentuale che nel caso degli antinfiammatori crolla al 12%.
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A certificare questa vera e propria corsa a questi medicinali sono i dati pubblicati da Iqvia, provider globale di dati e analisi in ambito sanitario e farmaceutico. Nel 2022 la vendita di analgesici e antinfiammatori in farmacia, come paracetamolo, l’aspirina e l’ibuprufene, è aumentata del 40% arrivando a 288 milioni di euro. Allo stesso modo anche i prodotti per la tosse, come gli sciroppi, nel 2022, hanno visto un aumento del 78%, toccando un valore di 388 milioni. Un aumento verificatosi soprattutto nelle ultime settimane dell’anno e «nonostante molti di questi farmaci, utili anche come antifebbrili, siano stati interessati da carenze», avverte Iqvia che sottolinea come il 2022 sia stato un anno di ripresa per la farmacia in Italia con un aumento a valori del 4,6%, rispetto al 2021, a 25,7 miliardi di euro (a volumi la crescita è stata del 4,4%).
In questi giorni in cui è partito l’allarme sia l’Agenzia del farmaco che i farmacisti ripetono in coro che per ogni farmaco di cui c’è carenza è possibile trovare un corrispondente generico. Il problema però è che in Italia si trascina da sempre una scarsa propensione dei medici a prescrivere il farmaco generico segnalando sulla ricetta il nome del principio attivo e non quello di marca (a esempio il paracetamolo invece che la tachiprina), ma anche degli stessi pazienti spesso affezionati al farmaco di marca nonostante il medicinale equivalente sia del tutto identico visto che ne è una “copia” di quello griffato a cui è scaduto il brevetto. Un corto circuito certificato dai numeri: secondo le elaborazioni di Egualia (che rappresenta i produttori di generici) su dati Iqvia i generici rappresentano solo il 30% del mercato (al Nord si sale al 38%) contro una media europea che supera il 50%. Ancora più evidente il gap tra farmaci di marca e generici nel caso a esempio degli antinfiammtori: i generici sempre secondo le elaborazioni di Egualia su dati Iqvia rappresentano il 12,4% rispetto all’87,6% dei griffati. E così a esempio il Brufen rappresenta l’84,7% delle vendite contro il 15,3% del generico (Ibuprofene è il nome del principio attivo). Un po meglio va il Nimesulide dove il generico vale il 34,4 per cento.
A pesare sul ricorso ai generici è innanzitutto il fatto che non sempre i medici indichino sulla ricetta il principio attivo della molecola al posto del nome commerciale. In realtà una legge del 2012 è abbastanza chiara sul punto perché obbliga il medico a indicare sulla prescrizione sempre il principio attivo, ma riconosce la facoltà sempre al medico di indicare nella stessa ricetta anche la denominazione (di marca o generica) del medicinale a base dello stesso principio attivo giudicandolo così insostituibile. In questo modo si preferiscono sempre i farmaci di marca nonostante ci sia l’alternativa del generico quasi sempre più economica.