Siamo probabilmente dopo il 1460. Un dotto umanista greco, originario di Salonicco, si trova in Italia. È nato probabilmente tra il 1398 e il 1415. Vi è giunto per fuggire dai turchi come tanti altri colti intellettuali: il cardinale Bessarione, Giorgio Trapezunte, Costantino Lascaris, Andronico Callisto. Quest’uomo è Teodoro Gaza, che possiamo leggere in italiano grazie alla bella traduzione di Lucio Coco.
Come gli altri è costretto a girare per le corti italiane (Mantova, Ferrara, Roma, Napoli, ecc.), e vive vendendo ciò che sapeva, cioè insegnando e traducendo, e anche scambiando libri. Scrive a un signore importante, al quale ha fatto un dono, e lo scritto (ipotesi avanzata da Angelo Mai) accompagna il dono stesso. Sa che sta facendo qualcosa di strano e insolito, cioè di contrario al comune costume: si accinge a tessere le lodi del proprio dono (p.17):
[…] Io, uomo illustrissimo, so che sto facendo qualcosa di strano, di insolito e forse anche di assurdo, perché mentre gli altri tendono a svalutare e a sminuire i doni che essi inviano agli amici, io al contrario mi accingo a magnificarli e ad abbellirli. […]
Anche se i più tendono a sminuirli, e lui al contrario a magnificarli, lo fa per una giusta motivazione: uomini potentissimi e di grande erudizione come il sultano apprezzano ciò che lui sta per regalare all’illustre amico, che fra l’altro ama tutte le ‘cose belle, in particolare quelle che dipendono dalla cultura’, e che sicuramente trarrà diletto non solo dal dono ma anche dallo scritto con cui l’ha accompagnato.
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Il dono che gli ha mandato è un cane. È un animale che ha una grande considerazione fra gli uomini, perché ha moltissime qualità. I leoni si distinguono per il coraggio, i buoi per l’ubbidienza ‘al comando e l’essere idonei all’agricoltura’, ‘i cavalli per l’intelligenza e l’agilità’, gli asini e i muli per la loro capacità di resistere agli sforzi, e tanti altri animali per tante altre loro virtù: il cane, però, le ha tutte. Ha una natura adatta alla campagna, alla città, alla pace e alla guerra: è utile ma procura anche diletto. È un compagno nella caccia, che è una nobile attività, in quanto fu praticata dagli dei, dagli eroi, dagli uomini, dai greci ma anche dai barbari, nei tempi antichi, ‘adesso e dovunque’ (p. 19). È un’attività umana presieduta da Artemide, la sorella di Apollo, e tutti i popoli, compresi gli spartani la praticarono. Chi non cacciava nel giorno di Artemide si macchiava di disonore. Senza la caccia ‘ci sarebbero fiere che farebbero del male agli uomini e li assedierebbero, chiusi nelle loro città’ (p. 20). I giovani grazie all’arte venatoria vengono educati alla guerra (al tempo di Teodoro era considerata ancora un valore).
Il cane è inoltre fedele: viene messo a capo delle greggi, e grazie alla sua custodia i lupi non li sbranano. È quindi un ottimo custode delle nostre cose, come dimostra la storia del cane Capparo, che aiutò gli ateniesi a recuperare quanto un ladro aveva rubato dal tempio di Asclepio. In seguito a questo episodio si stabilì che ad Atene il cibo ai cani fosse dato a spese della città e addirittura furono incaricati i custodi del tempio di svolgere questo servizio.
Il cane è dunque un ‘guardiano’, e a insegnarlo è lo stesso Platone nella sua Repubblica, che ‘cercando qualcosa di adatto da porre come guardiano della sua bellissima e magnifica città, non ebbe da cercarne altrove un modello, se non nella natura stessa dei cani’ (p. 22). L’ottimo guardiano deve avere ‘un’indole filosofica e animale’ e tale è la natura del cane che si irrita con gli sconosciuti che pure non gli hanno fatto nulla di male e saluta con affetto quelli che conosce anche se da loro non ha ricevuto alcun bene (pp. 22-23):
[…] Qui è bene fermarsi. Infatti chi, essendo intenzionato a dire cose grandissime non solo riguardo ai cani ma anche relativamente agli uomini, potrebbe affermare qualcosa di meglio e di più bello? [Platone] vuole che il guardiano sia simile non al cavallo, al bue, all’elefante ma al cane. Il cane è un ottimo custode, tale, dice, sia il guardiano della mia città. Il cane è filosofo nell’indole. Sia simile a lui il mio guardiano. […]
Il cane è anche amorevole e affettuoso: se il padrone resta a casa è anche lui a casa; se esce anche lui esce; non si spaventa dinanzi a nessuna difficoltà, lo segue dovunque. Se il padrone ‘lo chiama, viene; lo minaccia, si fa alquanto sottomesso. Lo colpisce, non si adira’ (p.24).
Il cane è così fedele all’uomo che alcuni cani dell’antichità per la loro ‘amicizia e benevolenza’ verso i padroni sono diventati famosi: Ircano morì con il re Lisimaco, il cane di Esiodo ‘scoprì gli assassini del poeta’. Teodoro, nel congedarsi dal proprio interlocutore asserisce che avrebbe ancora molto da dire sulla natura dei cani, e specie sulla ‘cagnetta graziosa’, con la quale probabilmente l’ha omaggiato. ‘Sulla pagina non ci sta più di questo’ asserisce, e non aggiunge altro. L’elogio del cane è uno scritto improvvisato: un gioco per lui che l’ha scritto, un divertimento per il signore che lo leggerà. Al quale (e forse anche a noi!) augura, con leggerezza, brio, e sapienza filosofica, giorni felici.