È il 1986. Reynald André Chalard deve affrontare un concorso difficile. Legge L’ignorant. Si avvicina per la prima volta alla poesia di Jaccottet. Fa fatica inizialmente a comprenderla. È ancora troppo legato al modello di Baudelaire, a Hugo e a Rimbaud. È in un momento di crisi, le sue certezze vacillano. Scopre un altro modo di fare poesia, inseparabile dall’atto stesso del respirare, dalla vita quotidiana, lontano dalle ‘altitudes romantiques et obsédé par l’infini poétique’ a cui era abituato.
In Jaccottet (cita come esempio la lirica La traversée dell’L’effraie) non c’è la bellezza ideale ma quella sperduta come un seme, che fugge via, consegnata ai venti, agli aranci, senza fare alcun rumore, (p. 10) che continua a fiorire, a caso, qua e là, nutrita dall’ombra. La sua arte mira a conciliare gli opposti, il limite e l’illimitato, il chiaro e l’oscuro, il respiro e la forma (p.11); rifugge da ogni forma di poetizzazione del mondo (p.13), da riduzioni del reale a letteratura, da artifici letterari (p.11).
Per il Poeta, che è consapevole che quando si gioca con le immagini può accadere che la ‘verità’ della parola ceda il posto al virtuosismo della scrittura (p. 14), il problema è, dunque, il nesso fra emozione e immagini: bisogna trovare il modo che la parola non finisca per occultare l’emozione poetica che ha generato la poesia, quel quid che forse è oltre le immagini stesse, che resta inaccessibile alla parola (p.14):
[…] et si tout ce que l’on essaie d’imaginer en dehors de ces limites n’est pas en dehors de l’image, et inacessible à la parole (La promenade sous les arbres) […]
La poesia di Jaccottet sembra legata alla morte: il suo approccio parte dal nulla per trovare dei momenti di pienezza, di grazia, di forza interiore (p. 14):
[…] À partir du rien. Là est ma loi. Tout le reste: fumée lointaine. (La semaison) […]
Per lui poesia e vita coincidono: ha la poesia quando letteralmente ha la vita. La sua adesione alla vita è però molto diversa da quella dei romantici: è senza enfasi, più austera, in alcuni passaggi più vicina alla mistica, e rispondente a un’idea che ha maturato negli anni, cioè che la difficoltà non è di scrivere ma di vivere in modo tale che la scrittura nasca naturalmente.
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Nella seconda parte del libro segue un entretien a Jaccottet (22 febbraio 1988). Qui egli, rispondendo a delle domande, ripercorre la sua esperienza di traduttore e di poeta. Per lui tradurre è una necessità (p.24); non sa, però, se questa necessità sia legata oppure no alla sua attività di poeta. Non è un teorico di professione. Si limita a riferire la sua esperienza, e partendo da questa definisce la poesia come la traduzione di un’emozione (p. 25) che mette in moto il processo della scrittura. Senza emozione la scrittura non è possibile. Rifiuta, quindi, in modo netto il Surrealismo, l’eloquenza, l’abuso di immagini, una poetica che riduce l’atto creativo a un gioco di parole o a un fatto puramente linguistico; ritiene al contrario che ci sia una stretta correlazione fra scrittura, reale, e mondo visibile. È lì che si instaura il rapporto con le immagini: il poeta come un traduttore traduce da un ordine generale che è fuori di noi (p.35), dà voce alla poesia nascosta che è nel mondo (p.36). Quando scrive deve, perciò, ricercare la leggerezza espressiva, la trasparenza totale, un’assenza di immagini e di sintassi, i termini giusti (p.33), quelli cioè meno lontani dall’emozione e da ciò che ha fatto nascere la poesia.
Jaccottet in De la poésie da poeta ci indica non un modello teorico per scrivere poesia ma una strada, un’esperienza da seguire. La sua scrittura e attività di traduttore è sorretta da un pensiero forte, da una ricerca interiore, da un’idea della poesia non scritta che va oltre le parole e di cui queste sono soltanto in parte depositarie. La sua è una grande lezione di rigore, di onestà, di ricerca continua della poesia ma anche della traduzione dei grandi. Una lezione su cui tutti noi dovremmo meditare se non vogliamo che la Poesia sia sempre più sottoposta a un inarrestabile processo di mercificazione, a una pratica estemporanea, a un gioco formale, a una perdita della ‘verità’ della parola.