Per contrastare il calo del potere d’acquisto causato dall’inflazione alta, il governo Meloni con il Decreto lavoro ha deciso di tagliare ancora il cuneo fiscale sulle retribuzioni medio-basse, così da aumentare il netto in busta paga. L’ulteriore sconto sui contributi previdenziali a carico del lavoratore scatterà da luglio e durerà fino a dicembre, senza incidenza sulla tredicesima. Sarà di quattro punti percentuali sulle retribuzioni fino a 35 mila euro lordi (circa 1.900 euro netti al mese). Esso si somma al taglio di tre punti per le retribuzioni fino a 25 mila euro lordi (circa 1.520 euro netti al mese) e di due punti per quelle tra 25 e 35mila euro, disposti per il 2023 con la legge di Bilancio approvata lo scorso dicembre. Lo sconto, nella seconda parte di quest’anno, sarà quindi di ben sette punti percentuali per chi prende fino a 25mila euro e di sei punti per chi guadagna tra 25 e 35mila euro lordi, con un aumento in busta paga che potrà arrivare a sfiorare i 100 euro, secondo le simulazioni dello studio De Fusco Labour & Legal per il Sole 24 Ore.
Una retribuzione di 10mila euro lordi (circa 780 euro netti) sta già beneficiando per il 2023 di un taglio di tre punti dei contributi previdenziali trattenuti in busta paga, con un aumento della paga netta di poco più di 19 euro al mese, cui ora si sommeranno altri 25 euro circa, dovuti al nuovo taglio di quattro punti. Così da maggio il netto salirà complessivamente di quasi 45 euro. Che diventano 67 euro (rispetto ai 38,5 euro goduti finora) per le retribuzioni lorde di 15mila euro; 77 euro (rispetto ai 44) per quelle di 20mila e 96 euro (rispetto ai 55) per chi prende 25mila euro.
La riduzione del cuneo fiscale è un tema di cui in Italia si parla da decenni. Tutti sono d’accordo sul fatto che sia troppo alto e vada ridotto, tuttavia nella pratica farlo è complicato. In Italia il cuneo fiscale è comunque molto alto: secondo i dati diffusi annualmente dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che considerano la retribuzione media di un lavoratore single, l’Italia è il quinto paese con il cuneo fiscale più alto, pari al 46,5% del costo complessivo del lavoro, a fronte di una media del 34,6%. Questo significa che se il costo complessivo del lavoro è pari a 100 euro, il dipendente percepisce come retribuzione netta solo 53,5 euro. La restante parte, 46,5 euro, ossia il cuneo fiscale, è a carico di dipendente e datore di lavoro: l’azienda paga 24 euro e il lavoratore 22,5.
Il cuneo fiscale è la somma di due componenti principali, l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e i contributi previdenziali e assistenziali. Il dipendente si fa carico dell’imposta e di parte dei contributi, il datore di lavoro della restante parte dei contributi. La riduzione prevista dal governo Meloni impatterà solo la parte di contributi pagati dai dipendenti. L’intervento è in continuità con quelli passati: lo scorso anno il governo Draghi aveva predisposto la stessa misura per proteggere il potere d’acquisto degli stipendi più bassi, il governo Meloni l’ha confermato nell’ultima legge di bilancio e l’ha ulteriormente potenziato con quest’ultimo decreto.
In linea di principio c’è un generale consenso sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale e soprattutto sull’urgenza di farlo in questo momento storico, con l’inflazione che impoverisce i lavoratori con un reddito fisso. In questo caso la riduzione prevista dal governo Meloni è stata criticata dai sindacati soprattutto perché è una misura temporanea, valida fino al prossimo dicembre. Ma anche perché si inserisce in un decreto complessivamente duro nei confronti delle fasce più svantaggiate, e che prevede una sostanziale revisione del reddito di cittadinanza e l’allentamento delle regole per il rinnovo dei contratti a termine oltre i 12 mesi.
Le risorse a disposizione del governo però erano piuttosto esigue e la misura rischia di essere quindi di avere un impatto relativo. Nonostante questo, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha rivendicato il taglio del cuneo fiscale come il «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Come ha scritto il sito di fact-checking Pagella Politica, l’affermazione di Meloni è quantomeno esagerata: sia il governo Draghi che il governo di Matteo Renzi avevano adottato misure simili, stanziando peraltro risorse più consistenti.
I sindacati hanno contestato sia il taglio del cuneo fiscale che il decreto nel suo complesso. Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha detto che il taglio del cuneo fiscale risponde a una richiesta dei sindacati, ma ha criticato le modalità con cui è stato attuato perché «si tratta di una misura temporanea, non strutturale». Nella storia italiana sono stati tanti gli interventi per ridurre la tassazione sul lavoro, ma tutti relativamente ridotti e spesso solo temporanei: e infatti l’effetto sui costi per le imprese e sulle buste paga è stato spesso trascurabile.
Quello più noto fu nel 2014, quando il governo guidato da Matteo Renzi introdusse il bonus Irpef da 80 euro, un credito di imposta che il datore di lavoro corrispondeva direttamente in busta paga al lavoratore con un reddito annuale lordo fino a 24.600 euro. Fu un intervento tutto sommato apprezzato, perché i lavoratori si sono ritrovati in busta paga 960 euro l’anno in più, ma anche contestato perché ritenuto troppo “assistenzialista”. Nessun governo successivo lo ha mai revocato e oggi, per i redditi sopra ai 15 mila euro, è stato incorporato nelle nuove forme di detrazione fiscale per il lavoro dipendente. Ma misure di questo tipo sono molto costose: quando fu introdotto il bonus Renzi costava tra i 7 e i 10 miliardi di euro l’anno.
Per finanziare il nuovo taglio del cuneo per quest’anno il governo utilizzerà i quasi 3 miliardi e mezzo di euro di scostamento di bilancio autorizzati dal Parlamento. Si tratta cioè di una copertura ricorrendo al deficit (pur senza aumentarlo rispetto alle previsioni), cui si sono aggiunte altre risorse per un totale di 4 miliardi. Questo stanziamento (che se proiettato su un intero anno vale circa 8 miliardi), si somma ai 4,6 già stanziati con la legge di Bilancio per finanziare il taglio del cuneo applicato dallo scorso gennaio fino ad ora. Quindi, se il governo volesse confermare nel 2024 il taglio del cuneo con gli aumenti dello stesso decisi oggi, dovrebbe trovare una dozzina di miliardi con la manovra di bilancio che presenterà a settembre. Operazione difficile a meno di non assorbire lo sconto sul cuneo nella riforma dell’Irpef che dovrebbe scattare dal prossimo primo gennaio.