Sono a Scandicci. Nel giardino del Pomario del Castello dell’Acciaiolo. Partecipo stasera alla nuova edizione di Nutida (nuovi danzatori e danzatrici) che accoglie figure di respiro internazionale e nazionale. Questa sera assisto a due spettacoli: Adama di Mario Bermudez Gil (Marcat Dance) e poi a Entanglement_ Studio 2 (Zakuro/Giardino chiuso).
La cornice è meravigliosa, magica. Entrano in scena tre ballerini con passi silenti, muovendosi sull’erba verde, al ritmo lieve della musica, animati da un’armonia antica, sfiorandosi le mani; poi i gesti si fanno drammatici, i corpi si intrecciano in una tellurica sintonia in cerca di qualcos’altro, di echi e risonanze vorticose, indefinite. Evocano una melodia di intrecci, una straziante danza del corpo e dello spirito. Una giovane figura di donna sul prato, al centro della scena, in un assolo. Gli altri due ballerini danzano all’unisono. Poi i tre si ritrovano in un’unità momentanea: il loro è un andare e un tornare verso un non luogo, una tensione all’unità nella disarmonia della vita e del cosmo, un librarsi dalla terra ma anche un essere nella terra. Sono figure che vivono nella loro solitudine e nella reciprocità e condivisione. Sono animate dall’inquietudine, dal tormento, portano nello sguardo ferite, drammi non sanabili, desideri non saziati. Il loro è un samba senza fine, un bisogno di unicità nella distonia del presente, uno sforzo titanico volto a uscire da loro stessi, a vivere, a immergersi totalmente nelle cose, a essere frammenti alla deriva in un cosmo senza senso.
È questa loro natura che fa sì che i loro gesti si facciano nervosi, e simboleggino la rottura dell’ordine, dolore e pacificazione, ma anche auto-annientamento. Amore, odio, pace, lotta, perdita, impossibilità di trovare una risposta al dramma, a quel male che c’è nell’esistenza di ogni uomo, sono i motivi centrali di questa bellissima danza. Non c’è redenzione se non nell’accettazione fino alla morte del proprio destino di sofferenza, drammaticamente solitario.
Via via che la luce si fa meno forte i corpi dei danzatori sembra che affondino nella terra, rinascano e risorgano dalla stessa terra, e vadano così incontro a una sorte scritta nel loro essere. Sono soli e uniti, in un canto senza fine, che li lega al destino di tutti gli uomini. Le loro sono vite in cerchio: sono un tentativo di esistere, di vivere oltre ogni impossibilità. In questo loro esserci ci sono momenti di gioia, di esilarante fiducia, di armonia. Nella consapevolezza di esistere c’è il superamento del dramma, una dirompente felicità, uno sguardo spalancato su un’impensata possibilità, un ritmo antico, qualcosa di dimenticato che da sempre abita e vive nell’uomo oltre la civiltà.
Segue una breve pausa. Ci si sposta in un’altra zona del Giardino del castello. Va in scena Entanglement Studio 2. Come in un atto di nascita due corpi emergono dal silenzio, dal nulla. Sono stesi a terra. Un uomo e una donna. Entrambi seminudi. Entrambi attaccati alla terra si muovono con lentezza indefinita, in spasimi di sofferenza come il primo uomo e la prima donna. Sono in cerca di un contatto, di un’unità, di un abbraccio possibile e impossibile. Poi i loro corpi si intrecciano in convulsi movimenti, e diventano uno solo. Restano sempre attratti dalla terra, a cui sono indissolubilmente e inesorabilmente legati, senza potersi sciogliere e sollevare verso il cielo, in una tensione e prigionia senza fine, in un un’unità unica e dolente. I loro movimenti sono lentissimi: vivono in un rotearsi continuo, nell’abbracciarsi e mescolarsi, in un viluppo indistricabile dove la realtà è il corpo, un universo che si contrae, si restringe, da cui è impossibile uscire, che li porta a fondersi in un essere che gioisce e soffre del suo stesso esserci, che si arrovella in una fisicità che è tenerezza, abbandono, spasimo, auto-esplorazione.
Poi si liberano dalla terra: sono in piedi, uno davanti all’altro, uomo e donna, uniti in un abbraccio, in un intenso aprirsi e chiudersi verso il cielo. Le loro mani si intrecciano, in un’armonia perduta e ritrovata, in una danza dell’amore che li rende lievi, leggeri, in sintonia con il tutto, nel corpo ma anche oltre il corpo, in un’apertura verso l’alto, in una fusione con il ritmo dell’universo, in un respiro unico.
Qualcosa però li separa di nuovo. Li fa ritrovare nella loro confusa dualità, soli e tormentati, oppressi dal dolore, da un male senza fine. Forse dalla sofferenza della separazione. Forse da altro… Vorticano, ansimano. Sono schegge impazzite, universi che lottano contro qualcosa che eternamente li divide.