A Nutida si respira un’aria di calda estate. Di calore della natura che si estenua nella sua bellezza ed emozioni. La prima danzatrice in scena è Beatrice Ranieri, in un assolo. Stesa a terra, prona verso la terra ma con il volto verso un punto indefinito. Forse il nulla, forse il mondo in tutta la sua bellezza. Poi si solleva verso il cielo. Con gli occhi bendati balla in maniera tesa. Poi si toglie la benda: il suo sguardo si volge alle cose, si mostra al pubblico. Il suo esserci è tutto nello sguardo, nella magia di un corpo che si svela e nega, in un’armonia che esiste, ed è dramma, passione, sentimento. Piroetta verso il mistero di sé stessa e del mondo, in una chiusura e apertura verso un altrove da definire, da inventare e scoprire.
Poi è la volta della coreografia Orizzonti Verticali di Caterina Cescotti, interpretata da lei stessa e da Francesca Santamaria. Questa volta sono due le donne in scena. Spicca subito l’essenzialità dei costumi. Il bianco delle magliette, la musica ritmata di sottofondo che è in sintonia con i loro movimenti, con i loro corpi in cerca di un ubi consistam, di un ritmo nell’universo. Poi la musica si fa battito, richiamo a un motivo orientale, e i corpi delle ballerine come in una danza zen esplorano il cosmo, cercano simmetrie, equilibri e pace interiore, vicinanza con l’altro ma anche alterità. Sono sospese in un universo di cui non comprendono il senso ma di cui si fermano ad ammirare le forme; in una prossimità che si fa ogni volta ricerca, dialogo, vicinanza, umanità, sfioramento dei corpi e delle mani; e poi un allontanarsi verso il cosmo e in una ritrovata individualità per potersi nuovamente compenetrare e rincontrare. Un turbamento assale i loro corpi come in un parto, in un vivere che è un ritrovarsi, in un abbraccio con la terra che è spasimo violento, passione; amore, piacere esplorato in un delicato sfiorarsi o in una stretta di mano verso una reciprocità che è l’unica sintonia possibile in un mondo che è dolore, mancanza, esclusione, solitudine. Danzano insieme nell’esistenza, sono reciprocità al di là della fisicità.
Segue una brevissima pausa. Poi una coreografia di Isabella Giustina: (IN)10SIONE. La danzatrice è questa volta Beatrice Ciattini. Il sole è meno forte. Il calore del giorno si estenua in toni più lievi e delicati a cui si contrappongono i passi di una donna, sola, in scena, il rosso fiammeggiante delle sue vesti. Poi uno spasimo. Tensione del corpo. Un inizio drammatico. Una contorsione che la lega alla terra e la spinge verso un esserci doloroso. Spicca il contrasto fra il bianco della pelle e il corpo nella sua bellezza, nel suo esplorare la materia in ogni suo millimetro. Poi lentamente nasce a una vita appena sbocciata. Si muove a tentoni, cerca una dimensione, un suo esistere con indecisione, tormento, amarezza ma anche con un continuo proiettarsi verso il proprio mondo interiore. La musica di sottofondo a un certo punto si fa più introspettiva. La donna è come se danzasse intorno al proprio sé. Si muove intorno al proprio baricentro, con gesti delicati, chiusura ma anche apertura. Esplora il suo corpo, il sapore dell’aria, si apre alla gioia, alla vita. Come una moderna Shahrazad ricongiunge il passato e il presente, in un andirivieni che è ricerca, equilibrio, sospensione, attimo eterno, un librarsi sull’acqua, racconto, immedesimazione con il tutto. Vita. Poi la danza si fa più nervosa. Si allarga in vortici di emozioni che dall’interno si schiudono verso un oltre di sensazioni, di percezioni, di materialità ma anche di soffusa spiritualità, in un percorso di liberazione dal proprio sé e dalla propria ombra; in uno sfinimento che toglie il respiro, e la riporta all’origine del tutto. Al silenzio primordiale. A un volto senza volto. A un inchinarsi, all’atto di agitare i capelli: drammatico, solitario, dolente. Senza fine.
Segue l’ultima coreografia: Open Drift di Philippe Kratz con Veronica Galdo e Nagga Baldina. Siamo in una nuova armonia, in un’immersione in un mondo di sonorità che evoca un nuovo inizio. La ballerina danza per un altro che è vicino ma anche lontano. Lui ne accoglie i gesti, il suo esserci. In un avvicinarsi, in un assolo ma anche in una dualità che è un canto d’amore, un’espressione di gioia. Fra i due c’è una profonda sintonia. È come se l’uno esistesse per l’altro e viceversa, e si muovono al ritmo lieve della brezza del vento della sera, in un tutt’uno, per ritrovarsi e accogliere l’esistenza dell’altro, in una simmetria di parole non dette o rimaste sospese o appena pronunciate, sul filo delle labbra, che culmina in un abbraccio, in uno spasimo, in un essere insieme che è anche riconoscimento della rispettiva diversità. La bellezza dei loro corpi, la loro gioventù, l’ingenuità della loro natura richiama qualcosa di eterno, un andare e un tornare. Una magia che si ripete. Da sempre.