Un essere si sveglia confuso dal sonno. È il Minotauro. È nel labirinto costruito da Dedalo. Lì lo hanno portato i servi di Minosse. Entrano nel labirinto, legandosi con dei fili, e il loro intento è di proteggere ‘l’essere Minotauro’ dagli uomini, e loro da lui. Lì il mostro, in questo luogo fatto di ‘mille pareti di specchi rispecchiati in altri specchi’ se ne sta accovacciato dinanzi all’infinità di immagini simili alla sua. Gli è impossibile non vederle: non sa però che è sempre lui. Non sa dov’è. Non sa se è un sogno. A dire il vero non sa neanche la differenza fra la realtà e il sogno.
Il Minotauro non ha coscienza di sé: non sa chi è, non sa di essere un mostro. Non conosce neanche il suo corpo, che vede riflesso, come ogni suo gesto, in molteplici immagini. Pensa così di non essere solo, che ci siano altri esseri simili a lui; mugghia, e sente mugghiare la sua immagine, e prova gioia pensando di essere fra altre creature come lui (p. 13). Spinto da una intensa euforia prende ardire: spicca balzi, fa capriole, e le immagini riflesse negli specchi fanno lo stesso; sembra realtà ma è soltanto apparenza, finzione, un’illusione prodotta dal costruttore del labirinto, una sorta di creatore che lo ha realizzato per imprigionarlo per sempre, per tutta la durata della sua esistenza.
Ogni gesto che compie è una nuova scoperta: arriva a pensare di essere il Dio di quei simulacri che si riflettono negli specchi ma non sa neanche che cos’è un Dio. La sua è una gioia infantile, che sa tramutarsi in una ‘ritmica danza dell’essere’ (p. 15), quando all’improvviso scorge esseri che non sono ‘immagini pronte a ubbidirgli’ (p. 19). Poi una ragazza nuda gli compare dinanzi. È bella. Capisce che esistono altri esseri oltre ai minotauri, e che fino a quel momento era vissuto in una ‘prigione di vetro’ (p. 25). Per la prima volta sente ‘un’altra carne’. Per la prima e l’ultima volta lui e la fanciulla danzano insieme: lei danza il suo destino, lui la gioia di averla trovata. Ma non sa cosa è morte e vita, e così nel farla sua la uccide (p. 25).
Il Minotauro è puro istinto. Il suo desiderio è ‘felicità dirompente’, ‘dirompente piacere’, un grido cosmico, che gli impedisce di comprendere ciò che ha appena fatto. Non capisce, anche quando si accascia a terra, che la ragazza è morta, e con un’ingenuità mostruosa e infantile allo stesso tempo la lecca con la gigantesca lingua violacea. Ma lei resta immobile. Lui è il figlio di Pasifae, che ha generato una creatura che è ‘oltraggio agli dèi e maledizione per gli uomini’. Per sempre è condannato a non essere ‘né dio né uomo né bestia ma soltanto minotauro, in pari tempo innocente e colpevole’ (p. 31).
È maledetto ma non sa cos’è la maledizione. È spettatore del suo destino che in fondo non comprende, anche quando le immagini degli altri minotauri e quelle della ragazza si dissolvono, e dinanzi a lui sta un un essere che nella mano sinistra ha un mantello e nella destra una spada. È simile alla ragazza ma non è lei. È un uomo ma lui non conosce l’uomo, la sua terribile ferocia (p.33). Quell’uomo è lì per ucciderlo. È un nemico. Agita la spada, si accorge dell’ingenuità del mostro, ha vergogna di sé. Ma il Minotauro pensa che gli sia amico, gli si fa incontro pieno di benevolenza, si prepara alla danza dell’abbraccio. Pensa di non essere più solo (p. 37).
Danza e dimentica il sole e la maledizione. ‘In lui c’è solo amicizia, allegria, leggerezza, benevolenza’ ma non nell’uomo che invece gli conficca una spada nel petto. Poi compaiono altri sei giovani e altre sei ragazze accanto all’uomo che lo ha colpito: sperano di vederlo stramazzare. Gli sembra che l’intera umanità sia lì per annientarlo. Allora l’odio lo invade, e dopo aver preso una ragazza sulle corna si avventa in una ridda di dolore e rabbia su dei corpi bianchi. Resta di nuovo solo. Abbagliato dalla luna vede di nuovo la sua immagine negli specchi. Si avventa con una furia cieca contro le ombre di se stesso, finché non realizza che c’è un solo minotauro, e che il labirinto è stato fatto per lui, e che una creatura come lui non sarebbe dovuta esistere. Per la stanchezza crolla a terra, e sogna di essere un uomo, e fratellanza. Lo trova Arianna addormentato. Arriva con il suo gomitolo di lana, lo avvolge intorno alle sue corna, e poi se ne va. Al risveglio il minotauro vede avvicinarsi un minotauro. Pensa sia ancora una volta un’immagine ma poi capisce che non è così. Allora ha un toccante moto di gioia. Crede di non essere più ‘l’essere unico’, un ‘io’ ma anche ‘un tu’ (p. 67):
[…] Il minotauro si mise a danzare. Danzò/ la danza dell’amicizia, la danza della fratellanza, la danza dell’accoglienza, / la danza dell’amore, la danza dell’intimità, / la danza del calore. Danzò la sua felicità, / danzò la sua dualità, danzò la sua /redenzione, danzò il crollo del labirinto, / lo sprofondare roboante di pareti e specchi/ nella terra, danzò l’amicizia fra minotauri, / animali, uomini e dèi […] il minotauro si gettò fra le braccia aperte/ dell’altro, confidando di avere trovato/ un amico, un essere uguale a lui, e quando/ le sue immagini si gettarono fra le braccia/ delle immagini dell’altro, l’altro lo colpì […]
Teseo pugnala alla schiena il mostro con un colpo sicuro, che muore poco prima di cadere a terra. Dopo poco si toglie la maschera da toro, riavvolge il filo, sparisce dal labirinto.
Minotauro di Dürrenmatt è un libro intenso, struggente. È una ballata della libertà, del desiderio di amicizia e di fratellanza ma anche del male; non quello compiuto, però, dal mostro, che ha la colpa di esistere per un fato e una volontà non sua, ma dagli uomini, i quali lo odiano perché rappresenta il diverso, l’incontro orrido fra il mondo animale e quello umano ma anche una parte del proprio sé che non vogliono vedere, chiusi come sono nella propria individualità e incapaci di vivere un’autentica dualità. È questa la ragione per cui Teseo, simbolo dell’intera umanità, lo uccide a tradimento. Proprio mentre l’altro, cioè l’uomo-toro lo abbraccia e in un gesto di accoglienza si consegna ‘cristianamente’ al proprio carnefice.