La vittoria monca di Feijòo in Spagna e la possibilità che possa formare un esecutivo con il partito di estrema destra Vox. L’aumento di consensi, in Germania, al partito Alternative für Deutschland (AfD), anch’egli di estrema destra. E il timore che queste “tendenze” possano essere replicate alle elezioni europee del prossimo anno, hanno spinto molti analisti occidentali a pensare che la politica europea possa scivolare verso posizioni di ultradestra. Ma non in Italia, o almeno questo è quello che crede il Financial Times. Nonostante le radici neofasciste di Fratelli d’Italia e l’alleanza con la Lega di Matteo Salvini, il governo di Giorgia Meloni avrebbe operato una «brusca virata al centro».
Per il Financial Times nei Paesi del centro-Europa, l’euroscetticismo sembra dunque essere al momento messo da parte: in Francia, il Rassemblement National di Marine Le Pen ha liquidato ogni discorso sull’uscita dall’Ue e pure dall’euro. Mentre Meloni è passata dall’invocare l’uscita dell’Italia dall’euro ad accettare la necessità di una disciplina fiscale e regole fiscali dell’Unione. E persino la politica estera sotto Meloni è rimasta fermamente filo-Nato e filo-Ucraina. Secondo il quotidiano economico di Londra, la premier ha infatti proseguito la strada tracciata da Mario Draghi relativa a una più stretta cooperazione con Washington, a scapito (per ora) delle relazioni con Pechino.
Il governo di Giorgia Meloni ha, inoltre, promosso alcune iniziative economiche discusse e controverse, sia per i loro effetti sia perché talvolta sono sembrate distanti dalla classica ideologia conservatrice e di destra che caratterizza la maggioranza negli altri campi dell’azione politica, dai diritti all’immigrazione. Le ultime sono state una tassa sugli “extraprofitti” delle banche, il monitoraggio dei prezzi della benzina e il calmiere ai prezzi dei voli per le isole, misure dai tratti dirigisti, caratterizzate cioè da un forte intervento dello Stato, e talvolta vicine alle istanze della sinistra. In più si è dimostrato restio a promuovere la concorrenza, un caposaldo delle teorie economiche liberiste, e quindi associate tradizionalmente alla destra, in settori che ne avrebbero notoriamente bisogno, come quelli dei taxi e degli stabilimenti balneari.
Ci sono state diverse iniziative più coerenti con un orientamento economico di destra, come la sostanziale abolizione del reddito di cittadinanza, ma il governo Meloni le ha alternate a misure che in molti hanno definito “populiste”, servite a richiamare la sua dimensione più sociale, come nel caso della tassa sugli “extraprofitti” delle banche che nelle intenzioni doveva servire ad aiutare chi è in difficoltà col pagamento del mutuo. È stato insomma un approccio misto, che si è scostato dalla storica diffidenza dei governi di destra a un eccessivo intervento dello stato in economia, a cui preferiscono normalmente il libero mercato.
Alcuni commentatori ed economisti hanno definito l’approccio del governo Meloni all’economia come “tecnopopulista”, sostenendo che in alcuni casi il governo Meloni si sia rivelato pragmatico nelle questioni più ampie e rilevanti, mentre abbia avuto un atteggiamento populista per quanto riguarda i temi più cari all’elettorato e a volte anche di scarsa rilevanza pratica. È il caso, ad esempio, della carta per gli acquisti dei beni di prima necessità riservata alle famiglie a basso reddito, una iniziativa una tantum tra quelle che hanno sostituito il reddito di cittadinanza.
Questa ambivalenza si è vista per esempio nella legge di bilancio. È la legge che contiene tutte le misure economiche aggiuntive o che modificano quanto in vigore fino a quel momento che il governo vuole introdurre per l’anno successivo: un provvedimento che dice molto dell’identità di un governo perché è l’occasione in cui si vedono le sue priorità di politica economica. Il governo Meloni doveva districarsi tra più vincoli: quello di dimostrarsi responsabile sul fronte dei conti pubblici per guadagnare la fiducia degli investitori internazionali; quello di dover continuare a finanziare le costosissime misure per attenuare gli effetti della crisi energetica e dell’inflazione su famiglie e imprese; e infine quello di dover dare il segnale ai suoi elettori di rispettare le promesse della campagna elettorale. Il risultato è stato una legge di bilancio disomogenea e che coniuga l’atteggiamento pragmatico con quello populista.