Quel “tutti insieme appassionatamente” contro le destre sembra essere la nuova formula vincente. In Francia l’opposizione a Marine Le Pen ha spinto socialisti, verdi e comunisti ad allearsi insieme al’ingombrante Jean-Luc Mélenchon, mentre in Italia il centrosinistra si ricompatta contro le riforme come l’autonomia differenziata e il premierato.
La Francia vira a sinistra e il Fronte Popolare, nonostante i 3 milioni di voti in meno rispetto al Rassemblement National, è il primo gruppo parlamentare. Una vittoria che ha fatto esultare tutto il centrosinistra italiano, soprattutto Elly Schlein: «Risultato straordinario per la sinistra unita e una bella risposta di partecipazione. La destra si può battere». Per Giuseppe Conte viene «premiata la proposta popolare e progressista di chi non ha mai avuto dubbi sulla pace, sulla difesa dei diritti sociali e sulla tutela dei più fragili», dice il leader pentastellato, sottolineando «il segnale di spinta democratica che oggi parla all’Europa intera». Angelo Bonelli del voto francese dice che «dimostra che uniti si vince» quindi «avanti in Italia per un’alleanza democratica, antifascista, progressista ed ecologista». Sempre da sinistra il leader di Si, Nicola Fratoianni parla di «Repubblica francese salvata dall’assalto dell’estrema destra. È anche una indicazione di speranza».
Il modello francese, l’alleanza contro la destra estrema riaccende il coro “unità-unità”, che in questi giorni, dal Pd, al M5S, passando per la sinistra di Avs, è risuonato nelle piazze italiane, come in occasione del testo referendario contro l’autonomia portato in Cassazione da tutti i leader, da Schlein a Conte.
L’autonomia differenziata è la riforma che consente alle regioni di chiedere al governo l’assegnazione di funzioni finora svolte dallo stato centrale. Questa proposta ha fatto emergere un dato politico interessante e non scontato, perché la contrarietà all’autonomia differenziata è stata fin qui è stato l’unico tema da quando è in carica il governo di Giorgia Meloni su cui tutti i partiti di opposizione si sono trovati d’accordo (tranne Azione di Carlo Calenda). E così venerdì il segretario della Cgil Maurizio Landini ha depositato alla Corte di Cassazione a Roma il quesito referendario con cui si vorrebbe abrogare la riforma, e con lui c’erano esponenti di quasi tutti i partiti che non sostengono il governo di Giorgia Meloni: la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, i leader di Alleanza Verdi e Sinistra Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, il segretario di Più Europa Riccardo Magi e Maria Elena Boschi di Italia Viva. Tutti, dunque, con la sola eccezione di Azione di Carlo Calenda, che ha comunque espresso critiche nette alla riforma.
Per dare seguito all’iniziativa e fare in modo che si possa arrivare al referendum, i promotori dovranno ora raccogliere almeno 500mila firme entro il 30 settembre. Nel frattempo la Corte di Cassazione, tramite un apposito ufficio, ha trenta giorni per dichiarare la legittimità del quesito; dopodiché sarà la Corte Costituzionale a doverne confermare l’ammissibilità, entro il 20 gennaio 2025. Solo allora, eventualmente, il governo e il presidente della Repubblica potranno indire il referendum, che dovrà svolgersi nel caso tra il 15 aprile e il 15 giugno del 2025.
Il percorso è dunque ancora lungo e complesso, e il deposito del quesito non ne costituisce che l’avvio, ma è comunque politicamente rilevante che intorno all’autonomia si sia raggruppato un fronte dell’opposizione ampio e plurale come non era quasi mai successo finora. Il progetto di federare il cosiddetto “campo largo”, come viene spesso chiamata una vasta alleanza delle forze progressiste e riformiste, è un obiettivo dichiarato da parte di Schlein, che non a caso dopo le elezioni europee di inizio giugno ha avviato una serie di colloqui anche con gli esponenti del centro con cui il dialogo negli anni passati è stato più complicato, e cioè Matteo Renzi e lo stesso Calenda.
È un segnale ancora parziale, ovviamente, che non basta per far pensare a una effettiva riconciliazione delle varie componenti dei partiti di opposizione in Italia, tra i quali ci sono ancora grosse divisioni su molte questioni. Insomma, vi sono tante analogie e tante differenze tra il Fronte popolare francese e quello italiano, ma nel nostro Paese esperienze come quella dell’Ulivo e dell’Unione si sono già dimostrate fallimentari. «Nel 1996 vinse solo perché il centrodestra si era diviso. Nel 2006 mise insieme sensibilità che non avevano nulla da spartire, e infatti durò pochissimo», spiega il giornalista Aldo Cazzullo in un’intervista rilasciata all’HuffPost dove spiega che «la cultura politica francese è molto diversa dalla nostra e che se è mai esistito, da noi il fronte repubblicano è crollato nel 1994, quando Silvio Berlusconi si alleò con i postfascisti del Movimento sociale e con i separatisti della Lega. Insomma, il Nuovo fronte Popolare de noantri – sentenzia Cazzullo – sta a mio avviso creando condizioni per prendere una tranvata pazzesca alle prossime politiche».