La flotta imperiale sta per virare verso Brindisi. La superficie del mare è soleggiata ma anche angosciosa e si prepara ad accogliere la “pacifica festosità del vivere umano”, la “vicinanza agli esseri umani e alle loro case”. Tanti i segni della vita: il cielo di madreperla sopra il mare, l’odore della legna, le grida di vita, i colpi di martello. Vita che si contrappone alla morte: nella nave che segue quella dell’imperatore sta Virgilio, ormai morente. Il Poeta, gravemente malato, è consapevole che il suo fato sta per compiersi. Non nutre alcuna speranza di salvezza, e negli ultimi istanti medita sulla sua esistenza ma presagisce anche ciò che sarà. Nella natura che lo circonda coglie degli istanti che porterà con sé per sempre. Tutto gli appare privo di valore, anche le grandi opere che ha scritto. Gli sembra che i loro nomi sbiadiscano nell’attimo in cui tocca con mano la propria umanità. Si spoglia di ciò che è stato: era ed è un contadino (p. 4), un uomo in fuga, un inquieto che è vissuto sempre ai margini.
Ha cinquant’anni. È morente. Il suo corpo è nella nave ma il suo sguardo va ben oltre. Si ferma su ogni particolare: la tela delle vele che schiocca, la spiaggia bianca che scivola via, l’acqua schiumante che assume riflessi d’argento ai colpi dei remi, il crepuscolo che cala via via che la nave entra nel braccio di mare che porta a Brindisi, simile a un fiordo (p. 5). Si immerge per la prima volta, proprio ora che sta per lasciare la vita, in un ‘bagno dell’anima’ che gli svela le cose future, e gli fa vedere quelle presenti da un altro punto di vista.
La nave è ormai nella baia. Si profila la città, le case, le osterie, un enorme numero di gente che si raccoglie per l’arrivo di Augusto. Compare la massa, un ‘ottuso animale’, di cui il Poeta sente tutto l’oscuro potere, e il senso della rovina e della catastrofe che porta con sé. Virgilio è in un “tempo sospeso e rapito”, in “una incerta veglia”, vede la città che brucia, la fine di Roma (p. 9). Per lui è il momento del “ritorno”, o meglio di una “continuazione immutata”, in cui può ancora una volta essere ragazzo ad Andes. La sua arte gli sembra un episodio di qualcosa di intravisto e imperfetto. Orde umane si avvicinano. Presto berranno sangue gridando giustizia (p. 9). La traboccante bellezza accumulata da Augusto e Mecenate sarà travolta, i santuari andranno in rovina, e a Roma vagheranno i lupi, riprenderanno il possesso della città.
È notte, a Virgilio si avvicina un angelo biondo. Lo invita a dormire. Il Poeta si risveglia al mattino sognando i campi gialli dopo la mietitura e la ‘pace della vita’, una pace diversa da quella che l’imperatore ha dato al mondo. Una pace vera. Spera che l’angelo visiti anche lui, in modo che possa capire… Si risveglia. Accanto a lui però non c’è più l’angelo ma Mecenate. È venuto a dargli l’ultimo saluto. Il vecchio amico crede ancora nella bellezza, lui non più. Ha capito che solo il ‘presentimento’ di altro può far risuonare il cuore dell’uomo (p. 14).
Mecenate va via. Virgilio è ormai pronto a lasciare la vita. Il suo animo è invaso dalla meraviglia ma anche dal dolore per l’amico e per Cesare. Vede i campi di battaglia della Germania, della Britannia, dell’Asia. Sono lontani, lontanissimi. Ma quelli che muoiono sono uomini. Vede le arene insanguinate di gladiatori che combattono gli uni contro gli altri per il divertimento delle masse che Augusto e Mecenate a loro modo servono. Come può, si domanda, l’uomo che guarda a bocca aperta le torture e se ne rallegra udire anche la poesia? (pp. 16-17). Capisce allora che non può risvegliare il cuore umano, confuso e indurito, chi non entra lui stesso nell’arena e non si lascia inchiodare alla croce. La bellezza che c’è nei suoi versi appartiene a Mecenate e ad Augusto, non a lui. Si amareggia per averla servita, per non aver mai contraddetto le loro opinioni. Ma nelle sue opere, però, c’è anche altro. C’è un ‘qualcosa di nascosto’, su cui avrebbe dovuto riflettere prima.
Si fa silenzio. Sente una grande quiete, quella che rende l’umanità non “una massa ma una comunità d’anime”, “un muto canto corale di sfere di nitore che risuonano insieme” (p. 19). Intuisce ciò che l’umanità dovrebbe essere. Prima di spegnersi. Di attraversare tutte le età, e di percorrere “il dissolversi del tempo”.