I detrattori la chiamano la secessione dei ricchi, i fautori la considerano il compimento di trent’anni di battaglie. Martedì, con 110 voti favorevoli, 64 contrari e 30 astenuti, il Senato ha approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata, un provvedimento voluto dal ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli che definisce le modalità con cui le regioni potranno chiedere e ottenere di gestire in proprio alcune delle materie su cui al momento la competenza è dello Stato centrale. Il provvedimento non è ancora legge: ora il testo andrà alla Camera, dove seguirà un percorso piuttosto lungo e da cui potrebbe infine dover tornare di nuovo al Senato se, come è probabile, i deputati introducessero modifiche.
Dai rapporti internazionali alla protezione civile, dall’energia alla tutela della salute, dalla ricerca scientifica all’ambiente e via elencando, senza dimenticare le casse di risparmio, gli aeroporti, la previdenza complementare o l’ambiente. Sono ben 20 le materie oggi di legislazione concorrente (cioè, di comune competenza di Stato centrale e Regioni) che in base al progetto di legge sull’autonomia differenziata potranno passare integralmente a carico delle Regioni. A cui si aggiungono altre tre materie oggi di competenza solo centrale: l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. In sintesi una redistribuzione dei poteri, grazie a una diversa allocazione delle risorse pubbliche, da Roma verso quei territori che ne faranno richiesta.
Il processo non è automatico: le Regioni potranno chiedere e concordare con il governo la “devoluzione” di competenze e risorse. L’autonomia differenziata prevede infatti la possibilità di trattenere parte del gettito fiscale generato sul territorio per il finanziamento dei servizi e delle funzioni di cui si chiede il trasferimento. Una sorta di regionalismo spinto e asimmetrico, a geometria variabile. E che divide il mondo politico e amministrativo a diversi livelli: c’è il Sud che teme di perdere altre opportunità.
Finora a rivendicare un maggiore protagonismo amministrativo sono state Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, non a caso forse le tre Regioni più ricche del Paese. Ma l’iter per ottenere l’autonomia non sarà semplice: prima c’è lo schema di base tra Stato-Regione, poi gli emendamenti di Conferenza unificata e commissioni parlamentari, a seguire l’approvazione del Consiglio regionale, infine un disegno di legge del Consiglio dei ministri che il Parlamento dovrà esaminare e votare. Con FdI che frena l’accelerazione della Lega e subordina l’ok all’autonomia al parallelo via libera al premierato.
Un punto fondamentale della legge, voluto in particolare dai partner di maggioranza più sensibili all’unità nazionale, stabilisce che l’attribuzione di ulteriore autonomia alle Regioni, è consentita subordinatamente alla determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni previsti dalla Costituzione (Lep) e riguardanti tutte le Regioni del Paese. Dovrà quindi essere stabilito il livello minimo di servizi da rendere al cittadino in maniera uniforme in tutto il territorio, dalla Val d’Aosta alla Sicilia. Inoltre, per evitare squilibri economici fra le Regioni che aderiscono all’autonomia e quelle che non lo fanno, il disegno prevede misure perequative, cioè risorse aggiuntive anche per chi non chiede maggiore autonomia. La garanzia assicurata da Lep uguali per tutti sulla carta dovrebbe garantire l’uniformità dei servizi offerti ai cittadini da Nord a Sud. Ma nella pratica molto dipenderà dai finanziamenti che lo Stato centrale potrà mettere a disposizione per far convergere le prestazioni, oggi molto differenziate, verso lo stesso livello. Un tema di non facile soluzione e per molti versi antico quanto la nostra storia nazionale. È stata prevista allo scopo una Cabina di regia, nominata da una Commissione specifica per la definizione dei Lep.