Vincenzo Ruocco lo incontro nella sua casa a Salerno, che è anche il suo studio. Mi colpisce fin dall’ingresso la presenza in ogni angolo delle sue opere. Lui mi accoglie con cordialità, con un sorriso ma anche con l’apertura di chi si apre alla magia dell’incontro. È un uomo del Sud: nel suo genoma culturale è innato il valore dell’apertura all’altro, e il senso della diversità e del confronto intellettuale e culturale. Quasi intuendo una mia implicita richiesta mi lascia libero di immergermi nei suoi lavori; nella magia dei colori ma anche dei materiali che li ispirano.
La pittura di Vincenzo Ruocco parte, infatti, dai materiali (un pezzo di legno, ma anche la carta) che lui lavora, a volte taglia, divide, e poi riassembla fino a far generare dalla materia stessa esplosioni di colore, forme nervose, visi, occhi, corpi, mani che evocano un mondo ancestrale, magmatico, altamente poetico ma anche dolente e tragico. Le figure delle opere di Ruocco si compongono e si smaterializzano; sembrano generate dalla materia stessa con cui l’artista le rappresenta; nascono da un punto zero della creazione, da una radice fortemente materna, da uno scavo che forse il pittore fa nella sua interiorità alla ricerca di un’immagine del mondo fuori di lui che lo riporti però in una zona della sua coscienza ancora non esplorata, indefinita.
I soggetti della sua pittura sono animati come da un fuoco, da una volontà di venire alla vita, di esistere ma anche di essere ancora parte di ciò che li ha originati. Sono sguardi incisi ma anche colore; forme ma anche punti, attimo eterno di un divenire che si perpetua e si ripete nel tempo, in un rito, in un gesto, nell’atto stesso di sentire la vita che pulsa su un’antica tavola o nei colori che si mescolano fra loro come l’ardore che brucia in un ventre e genera gli occhi di un bambino che rivolge uno sguardo disincantato e dolente sul nostro amaro presente.
I visi sono centrali nella sua produzione, anche se Ruocco è pittore pure di orizzonti e di ‘ombre che fuggono’. Mi soffermo sui suoi volti: sono inquieti, magmatici, parlano a chi li guarda. Sono occhi spalancati che lasciano presentire tensione, labbra fermate in un singulto. Sono figure umane disincarnate, essenziali, che a tratti si dissolvono ma emergono anche con energia. Evocano con essenzialità presenze, intuizioni, passaggi e mai definitivi approdi. Le pennellate di Ruocco sono nervose, taglienti: si incidono nei gesti di mani aperte strappate forse al tempo che passa e divora ogni cosa. Le sue figure vogliono resistere, forse al male, alla sofferenza, al dolore della perdita. Non si arrendono al nulla, non tacciono però neanche il malessere che le attanaglia. Vincenzo quando dipinge mi sembra che voglia guardarsi dentro. Non lo fa, però, in maniera premeditata, con un intento intellettualistico ma in modo istintivo.
La sua è una pittura sanguigna, legata al corpo, a un’adesione alla vita pulsante e carnale. Ogni sua opera nasce, credo, da una gestazione profonda, da un travaglio non solo interiore ma anche ‘fisico’, da un andare verso un altrove da cui è attratto ma anche dal ritornare sempre ogni volta all’origine del suo stesso esistere. Senza mai tagliare quel legame profondo che lo lega alla ‘madre’, intesa nella sua accezione più profonda: madre terra ma anche rapporto profondo, ancestrale con il cosmo, con la vita nella sua fisicità e materialità.