Oggi con la poetessa Caterina Trombetti sono a Scandicci, nello studio del pittore Giancarlo Ferruggia. Mi immergo nelle sue opere: scatole di colori, pennelli, riviste, foto di lui, un autoritratto da giovane. Poi seguono i lavori della maturità, quelli dedicati a Madame Bovary. Mi colpisce la presenza di questa donna nelle tante donne che ritrovo nelle sue tele. Mi appaiono come figure multiformi di una sola, che ritorna in momenti diversi, come una presenza ma anche un’identità assente, cercata e mai definitivamente ritrovata.
Mi fermo a osservare i quadri. Uno ad uno. Mi soffermo sullo sguardo della donna. Intuisco che non è rivolto verso l’esterno ma al contrario verso l’interno. Ciò che vede la riporta indietro, apre spazi di visione del già vissuto. La sua vera vita è sullo sfondo, in un passato lontanissimo ma in qualche modo ancora vivo, che non può essere rappresentato in modo definito ma attraverso tratti, linee appena accennate, labili pennellate. Nei suoi gesti c’è sempre un’epifania del già vissuto.
Emma Bovary di Ferruggia a volte assume pose sinuose, altre volte pensose. È lì che mi guarda. Lascia presagire atmosfere, sembra parli, che stia per svelare un segreto, rivelare la magia del suo mondo ma tace in una fissità eterna. È lì, avvolta in un’aura magica, irreale, assorta per sempre nel suo desiderio di vita, misterioso, drammatico, senza storia.
Mi fermo. Mi pongo in ascolto. Mi lascio catturare da una linea, da un paesaggio appena accennato. Mi accorgo che è intriso di malinconia, di una pienezza mancata, di una ferita insanabile che si riapre ogni volta come un rito. C’è un ricordo struggente che abita ogni colore, ogni scintilla di luce che brilla negli sguardi di Emma: è come se ardesse della nostalgia mai appagata di un’età perduta, di una felicità assaporata e fugace. Il suo è uno sguardo umano, vivo, magnetico, forse magico: mi trascina in un flusso di mondi paralleli, fra loro sovrapposti come specchi. È uno spazio fisico, umano, temporale ma anche sacro. Poi nel mio breve viaggio fra le opere del pittore mi soffermo su un quadro che ritrae piazza Santo Spirito a Firenze. C’è come un oltre, mi accorgo, solo evocato, dietro gli spazi della città, un qualcosa di antico, una geografia smarrita di emozioni e sapori, delicata, lacerante.
Ferruggia è attratto dalla bellezza, nella sua manifestazione più autentica, nella sua essenza, cioè come archetipo. Lui la identifica con Madame Bovary. Il suo non è un comune ricordo letterario ma è molto di più. È l’attivazione di percorso spirituale che desta percezioni che il quotidiano ha fatto dimenticare, e attiva la possibilità che un immaginario sepolto nella coscienza possa risvegliarsi, concretizzarsi in un segno, nella sagoma di un corpo, in un orizzonte indefinito. È per questo, credo, che Ferruggia fa ricorso nei suoi dipinti a terre, ossidi, e cromi, cioè a materiali tipici degli affreschi, che imprimono ai suoi lavori un tono, un colore che ci riporta, pur restando ancorati al nostro presente, nel passato. Non un passato come rievocazione, ma come memoria ancestrale che in ogni nuova opera l’artista cerca e riscopre per esplorare ciò che ancora c’è di non detto, di oscuro e vitale nella sua anima.