Il grottesco alla Germi è un mondo a parte, una categoria a sé. È inconfondibile, un tratto così intimo e personale che difficilmente lascia indifferenti. O lo si ama o lo si rifiuta. “Sedotta e Abbandonata” (1963) è, dopo il capolavoro “Divorzio all’italiana” (1961) già Premio Oscar alla miglior sceneggiatura, il secondo confronto di Pietro Germi con la commedia: il risultato è un’altra pungente commedia, ambientata nell’arretrato Sud Italia del dopoguerra, che entra di diritto nella storia del cinema d’autore italiano. Le antiche tradizioni e il rispetto della famiglia patriarcale sono il fulcro attraverso il quale si sviluppa un tragico intreccio amoroso drammatico e realistico, ma attorno al quale si muovono personaggi e situazioni ironiche che conferma la svolta presa, tre anni prima, dal regista genovese.
Dopo una lunga serie di film, tra anni Quaranta e Cinquanta, di chiara e costante impronta drammatica, non alieni a modelli espressivi americani, l’autore si presenta incredibilmente satirico, imbastendo un nuovo modello di commedia sociale d’inusitata inimitabile crudeltà e di raffinatissima, quasi cristallina costruzione narrativa. In un paesino siciliano, la giovane Agnese viene sedotta da Peppino Califano (Aldo Puglisi), fidanzato della sorella Matilde. La ragazza non riesca a nascondere le ragioni della sua inquietudine e viene scoperta dai genitori. Il padre Vincenzo Ascalone, in preda alla collera, prima si getta sulla figlia sedicenne, poi, avuta la conferma della sua gravidanza, corre a casa di Peppino e lo malmena davanti genitori, obbligandolo a sposare la ragazza disonorata e rinunciare alla mano della sorella. Il giovanotto si rivela un vigliacco e non vuole convolare a nozze riparatrici con una donna svergognata e – per ragioni a lui note – non illibata, quindi prende tempo e organizza in fretta la fuga, aiutato dai familiari. Don Vincenzo, appresa la notizia, minaccia duramente Peppino e, accortosi dell’inganno, chiede aiuto al cugino avvocato (un magnifico Umberto Spadaro) e pianifica un regolamento di conti in cui coinvolge anche il figlio Antonio (Lando Buzzanca), improvvisatosi giustiziere. Il delitto viene evitato proprio grazie ad Agnese che, apprese le intenzioni del padre, chiama tempestivamente la polizia che giunge appena in tempo per evitare il delitto. Entrambe le famiglie si trovano ora davanti al tribunale, in attesa del verdetto: Peppino viene condannato per il reato di violenza. Ascalone, che potrebbe evitargli la galera, si rifiuta adesso di concedere la mano di Agnese al malfattore, obbligandolo a inscenare un falso rapimento che estenua ulteriormente la ragazza e la costringe a rifiutare le nozze, causando al padre un collasso che gli sarà fatale. Oramai svilita, Agnese accetterà di sposare Peppino, mentre Matilde (Paola Biggio) bruttina e poco sensuale preferirà, sul finale tragi-comico pieno di esilaranti colpi di scena, farsi suora piuttosto che unirsi in matrimonio con il barone Rizieri (uno strepitoso Leopoldo Trieste), spiantato e senza denti, scelto dal padre “in seconda battuta” per difendere l’onore di tutta la famiglia Ascalone.
Come nel precedente – ancora una volta grazie all’attenta e sapiente produzione di Franco Cristaldi –, il grimaldello della commedia permette a Germi di dar libero sfogo al suo coinvolgente sentimento morale e appassionato gettando uno sguardo cruciale, ancorché spesso iperrealista e ricco di accenti grotteschi, sulla realtà isolana, la cui rappresentazione cinematografica, in quegli anni, raggiunge i più alti vertici espressivi. Come scrive Gian Piero Brunetta, «con “Divorzio all’italiana”, “Sedotta e Abbandonata”, “Mafioso” (Alberto Lattuada, 1962), ma anche con “Salvatore Giuliano” o “Le mani sulla città” (Francesco Rosi, 1963), fra il 1960 e il 1964 s’imprime una svolta netta alla rappresentazione del Meridione. Anche il riso assume un risvolto tragico e si comincia a sottolineare con forza la separatezza della storia siciliana dalla storia italiana. Il genere cresce grazie all’intelligenza degli sceneggiatori e alle straordinarie doti degli interpreti e dei produttori che cominciano a investirvi capitali sempre più consistenti. La commedia rivendica il suo diritto a essere considerata prodotto d’autore». Grazie alla commedia, lo sguardo inesorabile di Pietro Germi si fissava ancora sul malcostume delle tradizioni e divenne un tratto inconfondibile del suo stile. “Sedotta e Abbandonata” compone dunque con “Divorzio all’italiana” un vero e proprio dittico satirico: una satira amarissima delle assurdità della giustizia italiana e della società siciliana.
Per la seconda volta, Pietro Germi sceglie come suo principale riferimento interpretativo Stefania Sandrelli, per la quale prova una vera e propria venerazione. Così rivelò lo stesso regista durante un’intervista radiofonica a proposito della sua prediletta, con la quale instaurò un sodalizio che l’accompagnò il tutta l’ultima parte della sua carriera, inclusi “L’immorale” (1966) e “Alfredo, Alfredo” (1972): «La Sandrelli mi sembra la più interessante tra le giovani attrici che ho conosciuto in questi tempi. È dotata di una giovinezza estrema, quasi fanciullezza, con quella grazia, quella plasticità o armonia che si trovano nelle mosse di un gattino o di un bambino. Allo stesso tempo, ha una caparbietà, una capacità, una capacità di giudicare che a volte mette in imbarazzo. La recitazione è per lei una dote naturale. Non saprei porre dei limiti alle sue possibilità». Per la Sandrelli, il sodalizio con Germi è il colpo di fortuna della sua via artistica, perché il lavoro del regista sul suo volto e sul suo corpo le conferiscono un riconoscibilità che, anche quando nel futuro affronterà prove più convenzionali (e con l’avvento della fiction televisiva sempre più dozzinale), le garantirà sempre una diversità, divistica e interpretativa, rispetto alle sue contemporanee. Le riprese del film furono peraltro turbate – con una curiosa coincidenza tra eventi narrativi e biografici – dalla tumultuosa relazione tra l’attrice e il cantautore Gino Paoli. Fu lo stesso Germi ad avvertirla che Paoli si era sparato un proiettile fermatosi vicinissimo al cuore.
Il film incassò ben 989 milioni di lire e si piazzò al secondo posto tra gli incassi della stagione, subito dopo “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica (che conquistò anche l’Oscar come miglior film straniero) e prima de “I mostri” di Dino Risi, entrambi film a episodi. E la classifica, con i primi tre posti dominati dal nostro cinema e da autori di quel calibro, rende evidente quanta vitalità appartenesse al cinema italiano di quel periodo. Saro Urzì si aggiudicò il Palmarès al Festival di Cannes e il Nastro d’Argento, riconoscimento quest’ultimo che andò anche alla sceneggiatura di Age e Scarpelli, Germi e Vincenzoni nonché a Leopoldo Trieste miglior attore non protagonista nei panni del barone Rizieri Grifeo-Zappalà. La critica ebbe reazioni discordanti. Tra i più favorevoli, c’è il critico del Giorno Pietro Bianchi: «Tutti gli interpreti sono eccellenti. Saro Urzì è una rivelazione: sembra un torrentello e invece è un fiume in piena, violento, generoso, nella sua angustia morale, umanissimo, una figura stupenda. Quanto a Stefania Sandrelli, donna attraente ma anche spinosa con quei lineamenti marcati, il sagace regista ne ha fatto un’attrice: bisogna seguirla con attenzione quando, vestita di nero, a occhi bassi, partecipa alla passeggiata rituale della famiglia, o quando è sconvolta dal furore amoroso». Le principali critiche si concentrano invece sulle scelte linguistiche ed espressive del regista. Scrive ancora Pietro Bianchi: «Si ha l’impressione che il regista non si sia fermato a tempo, che abbia accettato dalla forma mentis isolana non soltanto il barocchismo, che è vitale, ma un eccesso di argomenti, di episodi, di carica emotiva. Se questo bel film ha un punto criticabile, è nell’economia narrativa». Per Vittorio Spinazzoli, invece, «mentre “Divorzio all’italiana” era condotto secondo un ritmo di balletto, “Sedotta e abbandonata” è una sarabanda sempre più scatenata, sanguigna, becera; i personaggi, anziché essere dotati stilizzazione elegantemente marionettistica, hanno una greve presenza fisica, fatta di sudore ceffoni urla bestemmie. Questa violenta carica naturalistica tiene il film ben ancorato al mondo della cronaca, di cui mima e l’imprevedibilità e la goffaggine». Giacovelli, dal canto suo, la definisce «una farsa tragica con qualche vertigine grottesca, una tarantella macabra che accompagna con forzata allegria i funerali della ragione». Sul film si espresse anche lo scrittore Alberto Moravia: «Germi conduce la caricatura e il paradosso con ritmo indiavolato fino a un punto di tensione dopo il quale è difficile riprendere in mano le redini del racconto».
A giudizio unanime della critica, rispetto al precedente, viene sottolineata la presenza dominante di toni grotteschi e una certa concitazione narrativa, funzionali alla satira sociale e all’acre moralismo. L’eccesso è innegabile. Ma rispetto a quello che sarebbe accaduto in futuro, la stigmatizzazione e la stereotipizzazione, con la deformazione e la caricatura che avrebbero dominato molti dei personaggi della commedia italiana (Lina Wertmüller docet), il lavoro del “grande falegname” – come lo soprannominò Fellini – approda a risultati ben più raffinati. Ancor più che in “Divorzio all’italiana”, negli eccessi mimetici che lo caratterizzano, il film mostra come Germi interpreti la commedia in senso tutto corporeo. La comicità è il “prodotto della somma di disgusto e ironia”. Un disgusto morale e spesso solidalmente moralistico (da Massimo Girotti di “Gioventù perduta” allo stesso Germi de “Il Ferroviere” vestono tutti, con diverso piglio drammaturgico, le stesse caratteristiche), che si traduce in narrazione barocca, centrifuga, caratterizzata dalla grottesca ossessione dei gesti, dei tic nervosi, delle iperboli sonore. L’effetto comico, a volte straniante, a volte perfino stridente nell’esibizione del grottesco nasce dunque da questa dirompente collisione tra corporeità individuale e sistema sociale. E in questo senso si ricongiungono, attraverso il filtro di un racconto sempre sensibile al suo pubblico, le due passioni del cinema di Germi, neorealismo e commedia all’italiana.
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E così, in un’Italia in cui secondo l’allora vigente codice penale con il matrimonio riparatore si estingueva il reato di violenza carnale o di ratto, la Sicilia è dominata da un grottesco senso dell’onore e gli spettatori, accompagnati dalle musiche di Carlo Rustichelli, nuovamente si muovono in un clima cupo e afoso con bagliori terrificanti, in cui scoppiano feroci contrasti familiari e impera l’ipocrisia dei costumi locali. Se, da un lato, il regista prende pretesto da uno spunto polemico per affrontare un tetro quadro d’ambiente, dall’altro, l’elegante ironia di “Divorzio all’italiana” diviene più vivace e crudo sarcasmo. I personaggi sono apertamente disprezzati nella loro ipocrisia e falsità al pari della legislazione: gli unici che si salvano nella considerazione di Germi sono i carabinieri, paterni e comprensivi, e la magistratura. Ma di fatto per evitarne una – è questa la morale del regista – si assumeva una condanna ancora più pesante, come quella che si prospetta per la futura vita privata di Peppino, anche lui trascinato all’altare per evitare il disonore e la galera, destinato a una vita d’inferno assieme ad una donna che lo disprezza, condannato a vivere per sempre in un’unione che allora si poteva solo sciogliere con un “divorzio all’italiana”. Ci sono le donne che camminano con lo sguardo basso e castigati vestiti neri, uomini fermi nelle piazze e nei bar che osservano e bisbigliano. Il capofamiglia che con disinvoltura abborda prosperose “buttane” al bar e picchia poi, in privato, la giovane figlia per aver ceduto al richiamo dei sensi, costringendolo ora a difficili acrobazie per salvare il buon nome della famiglia. Qualunque azione, anche la più violenta, è legittima se compiuta in difesa del deviato senso dell’onore: non importa come stanno realmente i fatti, fondamentale come appaiono agli occhi della comunità.
Aderendo con forza e disillusione all’osservazione derisoria della borghesia post-boom, la Sicilia è narrata con un accanimento satirico e un occhio straniante ancora sconosciuti. Quello del Germi anni Sessanta è uno dei bianco e neri più belli della storia del cinema mondiale, non solo per la squisita qualità della fotografia di Aiace Parolin, ma anche perché si trasforma a sua volta in pertinente strumento espressivo coerentemente al film. Il nero indossato dalle donne della famiglia Ascalone, il bianco accecante del sole nella piazza del paese: è un mondo di contrasti forti, in cui il bianco e il nero sono in qualche modo la vita e la sua totale negazione ovvero l’asfissia della forma. Tra menzogne e teatrini coreografici, si duplicano in metacinema le dinamiche familiari e sociali che opprimono i personaggi, attribuendo netta preminenza all’esibizione dell’esibizione. In pratica, i movimenti delle figure umane sembrano spesso sottostare costantemente all’esibizione di se stessi, come su un palcoscenico naturale in cui il pubblico è costituito da una minacciosa società benpensante. Basti pensare a tutte le passeggiate nella piazza del paese in cui i personaggi assumono pose e comportamenti guidati. Nel groviglio di paradossi che lentamente imbrigliano le azioni e i pensieri della famiglia Ascalone e degli altri personaggi, risuona più volte Pirandello e la sua angosciosa presa di coscienza della fuga impossibile dalle forme.
Germi lavora palesemente su conclamati manierismi e, quasi in linea con i concept di trilogia in voga oggigiorno nel cinema americano, in questo “secondo capitolo” amplifica, ridonda, enfatizza. Così il gioco dei paradossi raggiunge livelli inauditi, fino a una vera e propria esondazione d’isterica saturazione verso il finale. Ma è un gioco scoperto, una sfida con la propria idea di cinema e con lo spettatore. La sequenza in prefinale, che vede Agnese in preda ai deliri, è in tal senso un’inarrivabile punta d’isteria narrativa come poche volte si è visto sullo schermo. Dando immagini e suoni a un delirio ossessivo, Germi utilizza splendidamente il montaggio audio-video ponendo lo spettatore in condizioni di estremo disagio. L’immagine reiterata fino allo spasimo dell’uomo che salta davanti ad Agnese, bloccandole la strada, non si dimentica facilmente, ricondotta com’è a puro significante dal suo ossessivo ripresentarsi. In quella sequenza il regista sfoggia un uso consapevole e stridente delle risorse del montaggio audio-video per aderire non tanto e non solo a una mimesi, bensì a una precisa idea di linguaggio. Emblematico è il personaggio di Agnese Ascalone, con la sua misteriosa e sensuale bellezza, nella celebre scena onirica, grottesca e angosciante in cui è inseguita selvaggiamente da tutti gli uomini del paese. La giovane resta vittima di un suo inconsapevole tentativo di fuga dalle forme: è significativo che davanti al giudice, a un passo dal matrimonio col suo amato Peppino, Agnese esploda e gridi un sì esasperato che di fatto è un no. Una volta visto il suo sogno d’amore e matrimonio rimanipolato e camuffato sotto mille teatrini, Agnese non ne vuol più sapere. È la realtà che scalpita, che si ribella sotto il manto delle forme soffocanti, e che può trovare una sola via d’uscita nella pazzia.