Una sfida letale sul web. La morte di un minore. In uno scenario già noto. È lo stesso alla base delle storie che hanno alimentato il caso Blue Whale, lo stesso che ha aperto il caso Johnathan Galindo e le tante challenge della morte che viaggiano sui social. Come quella che prevede la compressione della carotide fino al soffocamento. Un secondo in più o in meno separa la vita dalla morte. Questo “gioco” estremo sta coinvolgendo un numero crescente di ragazzi, sempre più giovani, ultima una bambina di 10 anni, di Palermo, a cui è stata diagnosticata la morte cerebrale. Dalle ricostruzioni diffuse dagli agenti di polizia, sembra che la bimba si sia soffocata con una cintura a seguito di una sfida trovata su TikTok.
Come molti altri social, anche TikTok permette di cercare i propri contenuti tramite hashtag. La Blackout challenge prevede che una situazione venga completamente ribaltata da una schermata nera. Un esempio: una ragazza è seduta a prendere un caffè su un tavolino. Schermata nera. La stessa ragazza sta facendo una verticale sopra la sedia. Non si tratta certo di istruzioni per il suicidio: nessuna cintura, quindi, e nessun soffocamento. Almeno per i video più popolari. Ma sono tanti e forse troppi per verificarli tutti. Non è escluso quindi che fra tutti questi video ce ne sia qualcuno che effettivamente parli di corde e cinture per soffocarsi. La piattaforma usa infatti degli algoritmi per evitare che i suoi utenti postino contenuti violenti ma questi algoritmi spesso sono facili da aggirare. Ed è così che sempre più spesso si trovano sfide estreme.
Vincere la paura facendo gesti punitivi verso se stessi e verso gli altri, restando in un equilibrio precario, mentale e fisico, tra la vita e la morte, passando dal dolore. Azioni estreme al limite della legalità, come nel caso del “Knock out challenge”, che consiste nel dare un pugno a uno sventurato che passa per strada. Solo per il gusto di filmare cosa succede. E poi c’è chi trova “emozionante” appendersi a testa in giù come un pipistrello, facendo leva sui cartelli stradali o sui tubi del riscaldamento (“Batmanning”) o gettarsi la vodka negli occhi, come nell'”Eyeballing”. Anche un gioco banale come camminare a occhi chiusi, si può rivelare fatale se la sfida, come nella “Bird box challenge” che prevede guidare un’auto senza guardare.
Tutto ha avuto inizio con la Blue Whale (la Balena azzurra) partita dalla Russia nel 2016: una prova estrema fatta di 50 assurde regole, tra cui tagliarsi le vene, salire sul tetto di un palazzo e arrampicarsi sul cornicione, inviando le immagini dell’impresa a un “curatore” e mettendole in rete. Per mesi si è parlato di numeri sconvolgenti di suicidi di giovanissimi soprattutto in Russia, di possibili fenomeni di emulazione in altre parti del mondo e persino in Italia. La portata del fenomeno è stata acuita dai media che hanno funto da cassa di risonanza: non si può escludere che sia stato anche l’allarmismo creato attorno alla challenge a spingere alcuni adolescenti a cercare la sfida in rete.
Poi è stata la volta del fenomeno Jonathan Galindo. Il personaggio è stato preso da una foto realizzata da un produttore di effetti speciali nel 2010, Samuel Catnipnik. Ma quel personaggio e il suo creator non hanno nulla a che fare con quanto successo in seguito: nel 2019 un utente social, tale Jonathan Galindo54, condivide una falsa storia secondo cui un uomo disturbato con indosso quella maschera stazionava nei pressi della sua abitazione. La storia è diventata virale ed in breve tempo sono apparsi centinaia di contatti con la foto di Jonathan Galindo e la storia secondo cui un uomo travestito da Pippo spingeva i minori ad una challenge che si concludeva con un suicidio. Sempre più spesso queste challenge prendono spunto da personaggi di cartoni o film come la spettrale Samara di “The Ring”: si va in giro vestiti solo di una camicia da notte bianca col volto coperto da lunghi capelli (di solito una parrucca), spaventando le persone e riprendendo tutto col cellulare per poi diffondere il video sui social. Alcune ragazze, coinvolte in questo gioco perverso, sono state aggredite e picchiate in strada. La Blackout challenge si aggiunge a questa lista di panici collettivi, che servono in qualche modo a dare un volto ai pericoli del web: il cyberbullismo, l’anonimato dietro a cui si può celare il malintenzionato, l’interazione non sempre voluta tra virtuale e reale.