Dopo l’avvento della televisione nei primi anni ’50, per far ritornare il pubblico in sala, si decise di controbattere realizzando film più imponenti e spettacolari di quelli visibili sul piccolo schermo. L’industria cinematografica iniziò, così, ad ampliare le immagini con il CinemaScope, il Superscope o il Technorama, cosicché ogni studio ricorreva al proprio procedimento. Ma la trovata forse più rivoluzionaria fu quella di conferire alle immagini un effetto tridimensionale, cosa possibile al cinema ma non in tv. Nonostante la sua diffidenza anche Hitchcock si vide obbligato a girare Dial M for Murder in formato stereoscopico: sin dal primo sguardo, ci si accorge che il film è messo in scena proprio come un’opera teatrale, dove le quinte sono fatte a strati ma tutto è bidimensionale.
Il regista fa muovere gli attori piuttosto che la cinepresa, e li fa camminare verso di essa; posiziona gli oggetti in primo piano; cerca di dare il senso della dimensione. Si avverte subito la sensazione di scorgere i personaggi attraverso una lente, restituendo l’idea di un proscenio tra gli attori e lo spettatore, che in modo non convenzionale si sente davvero dentro la scena. Poi, nei momenti più drammatici, il regista fa si che la mano di Grace Kelly vada verso lo schermo o che la chiave di casa si muova in direzione del pubblico. Hitchcock approfittò dell’opportunità di usare questa nuova tecnologia senza, però, abusarne, sottolineando l’effetto in rilievo con inquadrature dal basso, panoramiche, grandangoli e primissimi piani, sopperendo così anche alla poca dinamicità dell’ambientazione unica.
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Il delitto perfetto funziona alla perfezione dal punto di vista della drammaticità. Il regista era a corto d’idee e si gettò a capofitto su un’opera teatrale di successo di Frederick Knott che necessitava di ben poco adattamento. Era stata proprio la costruzione dell’intreccio a decretarne un autentico successo. E nessuno avrebbe saputo realizzare meglio uno dei migliori film parlati mai girati in un ambiente così esiguo. Prima c’erano già stati Lifeboat e Rope, che si svolgevano interamente su una scialuppa e in un unico appartamento, ma l’ambiente de Il delitto perfetto è uno dei più limitati e solo un paio di scene si svolgono in esterni.
Hitchcock orchestra così sapientemente i suoi film che non si ha mai una sensazione di claustrofobia, non ci si sente reclusi o confinati né si ha il desiderio di uscire. La limitazione, semmai, costituisce la struttura del film e fa crescere la sensazione di soffocamento, di tensione. L’arredamento di George James Hopkins è fatto di eleganti mobili Chippendale, soprammobili di pregio, statuette Wedgwood e, alle pareti, stampe di Rosa Bonheur. Sia dal punto di vista creativo che per lo spettatore, il dipanarsi della trama costituisce una provocazione.
L’unità di luogo e di azione (e “di emozione”) è, tuttavia, estremamente coinvolgente e invitante sin dal primo piano sequenza. Si vedono i coniugi Wendice in una scena che appare del tutto innocua, nella vita di coppia, con la donna che legge il giornale. Ma poi lei scorge un trafiletto sull’arrivo di una nave e, subito dopo, si incontra con un altro uomo, che bacia, indossando un abito rosso. Una spiegazione condensata e un conflitto immediatamente presentato contribuiscono ad appassionare lo spettatore. Se pensiamo che il regista, prima di allora, aveva girato solo due film a colori e numerosi in bianco e nero dopo Under Capricorn, l’uso che fa del colore è davvero notevole, proprio a partire dai costumi, che finiscono via via per incupirsi. La protagonista indossa il bianco in presenza del marito e il rosso in compagnia dell’amante, sugellando un contrasto tra questi due primi momenti, che presentano i due uomini nella sua vita.
Un cast brillante ma, al momento dell’uscita, senza alcuna grande star. Grace Kelly, al suo primo film con Hitchcock, è protagonista ideale e incarnazione di un ideale estetico e psicologico, “ghiaccio bollente” nei panni di un personaggio pacato, affascinante, ambiguo ed elegante; intensa, disperata, inesorabilmente vittima che però, se provocata, può diventare una tigre. Un’interpretazione indimenticabile, quella della sua bionda per eccellenza, che mette a frutto la prima di un trio di magnifiche performance, seguita poi da quella in Rear Window e in To Catch a Thief. Ray Milland, che è sempre stato un Cary Grant meno famoso, ci offre la sua migliore prestazione, decisamente migliore anche di quella per cui ha ottenuto l’Oscar, The Lost Weekend, oggi molto sopravvalutata. Affascinante e disinvoltamente sofisticato, è un cattivo di Hitchcock, molto più simpatico dell’eroe del film, Robert Cummings, che non risulta molto gradevole né interessante.ù
Una scelta sovversiva da parte del regista per rovesciare la storia stessa: lo spettatore si identifica con Milland, che sa stare tramando qualcosa ma che si lascia ammirare e gradire in tutta la sua disinvoltura. “Beh, quando ti ho visto mi è venuto in mente che tu avresti potuto uccidere mia moglie” dice calmo e metodico ad Anthony Dawson – un tipo alla Boris Karloff – come fosse un affare da niente, come si trattasse di vendere l’auto che voleva acquistare. E sta invece vendendo l’omicidio della moglie. Un modo molto seducente di dipingere quest’uomo, di mostrare chi sia.
Hitchcock lavora, infatti, contemporaneamente su trama e personaggio, sull’omicidio della donna e sul suo committente. Tony Wendice è una classica figura hitchcockiana, insospettabile cinico galantuomo ed ex campione di tennis che sembra avere tutto, una bella moglie e, a sue spese, una bella casa e una vita affascinante (con un solo movente: quello economico). Non ha forse partecipato a tutti i tornei più famosi del mondo? Come in molti altri film, il regista rivela la propria diffidenza nei confronti dei ceti alti, che hanno la possibilità di usare i propri privilegi per compiere piani criminali. E poi c’è Tony Dawson che, con i suoi lineamenti affilati, aveva interpretato lo sceriffo di Nottingham in una serie televisiva su Robin Hood e interpretò il colpevole di tentato omicidio in Dr. No, il primissimo film di James Bond. Capace di variare la sua recitazione con modi affabili, in scena beve un drink, si accende la pipa e parla con Ray Milland senza sapere che sta per essere coercizzato; poi, obbligato a fare ciò che gli viene richiesto, sfodera tutto il suo lato tagliente e si trasforma in uno spregiudicato killer dai molti nomi e precedenti penali, salvo poi rivelarsi maldestro sicario incapace di uccidere alle spalle una donna graziata dal caso, senza essere accoltellato con un paio di forbici che volteggiano in primo piano sullo schermo.
Due cose preparano in modo drammatico la sequenza del tentato omicidio: la meticolosità che il marito mostra nell’organizzare tutto con il killer e lo scrittore che afferma “nei gialli le cose vanno come vuole l’autore, nella vita reale non succede mai”. Poi tutto inizia ad andare storto. Quella dell’orologio di Milland è, poi, una trovata fantastica: quest’uomo così meticoloso non ha controllato l’orologio, che è scarico e perciò manca l’appuntamento con la telefonata al complice all’orario prestabilito. La simpatia dello spettatore, a quel punto, va ad Anthony Dawson che farebbe meglio a desistere dall’impresa mentre il mandante ha dei contrattempi alla cabina telefonica. Questa è la morale hitchcockiana per eccellenza del massimo esponente del thriller di suspense e classe, “da camera”, che in un certo senso è il contrario del mistero. Crea una situazione, ossia il potenziale omicidio del personaggio di Grace Kelly, e poi cambia il finale prestabilito. Vero è che Dial M for Murder ha anche elementi di un mistery, secondo la migliore tradizione di Agatha Christie, ma si fonda sulla suspense e su un intreccio machiavellico, come solo Hitchcock sa fare. È una combinazione di cose che vanno storte fino al modo teatrale in cui l’assassino “in pectore” muore e stramazza al suolo.
Ma quando entra in scena il detective brillantemente caratterizzato da John Williams, questo capisce in fretta che qualcosa non quadra. Il pubblico, a torto o a ragione, si schiera sempre dalla parte dell’esperto e, in questo caso, l’esperto cambia. Il marito lascia il posto all’ispettore Hubbard, che dice di sapere tutto sin dall’inizio, di aver sentito la moglie, controllato la chiave e l’estrattoconto. Uno dei pochi investigatori di Scotland Yard che Hitchcock rende simpatici: se Milland aprirà la porta con la chiave sotto il tappeto, avrà la prova della sua colpevolezza. E mentre vediamo il marito fare ciò che dice e, alla fine, aprire la porta, si costruisce una certa aspettativa. Seguire le sue mosse ci porta a tornare a parteggiare per chi, in realtà, dobbiamo simpatizzare, ossia il gruppo di tre persone, tra cui la moglie tradita che all’inizio ha a sua volta tradito ma che ora, in qualche modo, abbiamo perdonato perché l’amante ha canoni morali più elevati e sentimenti più sinceri. L’aria del marito è imperturbabile persino quando, alla fine, viene scoperto. Fa quasi sorridere il fatto che bevano un drink tutti insieme, assassini, vittime e polizia: un modo elegantemente festoso per descrivere un omicidio.
L’apparizione di Hithcock in questo film è una delle più difficili da notare, perché appare nella rimpatriata tra compagni di università, nella fotografia che Milland mostra alla telecamera. Dial M for Muder non è un film del passato ma, con uno straordinario stile di regia che mira alla narrazione, guida lo spettatore e mantiene intatta la sua efficacia narrativa. Andrebbe studiato per cogliere l’essenza di quell’arte che il regista, però, considerava ironicamente “un successo scontato”. Ma realizzato, in verità, con l’abilità e la moderatezza tipica della perfetta trasposizione cinematografica di un’opera teatrale di grande efficacia.