Quando un’azienda fallisce, nella gran parte dei casi, a rimetterci sono i semplici lavoratori. E i 33mila dipendenti di Toys “R” Us che, per grandissima parte, si ritroveranno a spasso dopo il fallimento del colosso dei giocattoli, ne sono la palese ed evidente testimonianza. L’economia americana, il cui crollo finanziario ha causato nel 2008 l’ormai celebre crisi, si sta trovando, negli ultimi tempi, a fare sempre più i conti con i crack che coinvolgono veri e propri giganti. E la politica ultra protezionista di Trump, se la si guarda alla luce di questi eventi, sembra un disperato tentativo di far tornare gli Stati Uniti nuovamente grandi soprattutto nell’economia.
UN SUCCESSO (QUASI) CONTINUO. Se l’Ottocento ha visto gli Usa volare verso un grande sviluppo e il Novecento conquistare letteralmente il mondo, il duemila, terzo secolo della storia degli Stati Uniti indipendenti, sta vedendo gli americani in difficoltà. Dalla seconda rivoluzione industriale in poi, infatti, se si eccettuano momenti di naturale declino economico figlio di uno sviluppo che non può essere continuo e infinito, gli Usa hanno visto crescere la loro economia in maniera esponenziale, almeno fino al 1929, anno della grande crisi. Tuttavia, anche grazie alle importanti riforme messe in atto da Roosvelt, il Paese riuscì ad uscire dall’impasse di miseria e mancanza di lavoro. Ma l’evento più caratterizzante e significativo per la crescita statunitense è stato, senza dubbio, la Seconda Guerra mondiale. Il perché è piuttosto intuibile: fatta eccezione per l’attacco di Pearl Harbour, nelle Hawaii, gli Usa non sono stati toccati direttamente dal conflitto. Il territorio americano non è stato bombardato, né i giovani che non sono andati a combattere sono stati uccisi dalle armi nemiche. In questo modo, mentre le altre nazioni, dopo la guerra, uscivano devastate e si trovavano a fare i conti con la ricostruzione, gli americani avevano proseguito la loro crescita. Ma un liberismo troppo sfrenato e aggressivo ha portato, già negli anni ’80, ai primi scricchiolii che si manifesteranno poi come crollo imponente e definitivo dopo il gigantesco crack della banca Lehman Brothers, scatenando la crisi del 2008.
LEGGI ANCHE: Black Friday ed etica del consumo
UN SECOLO COMPLESSO. Così, negli anni Duemila, gli Usa hanno cominciato a fare i conti con dei crack importanti e dolorosi. Primo tra tutti quello della General Motors e della Chrysler, orgoglio nazionale nel campo automobilistico. Le auto della Gm erano state icona del sogno americano e la città dei suoi stabilimenti, Detroit, venne addirittura ribattezzata “Motor City”. Oggi però, la metropoli del Michigan, complice il disastro economico della General Motors, che dal 2009, per evitare la completa bancarotta, beneficiò di un’iniezione vitale di 50 miliardi di dollari da parte del governo americano, è una città con ampie difficoltà economiche che hanno creato un profondo disagio sociale. Altro fiore all’occhiello di Detroit, la Chrysler ha subito una bancarotta controllata voluta nello specifico da Barack Obama, e nel momento più buio è stata acquisita dal gruppo Fca, Fiat Chrysler Automobile. Con il cambio di guardia ai vertici, come sempre, a farne le spese furono i dipendenti della casa automobilistica fondata nel 1925 da Walther Chrysler, che si ritrovarono da un giorno all’altro senza lavoro nel periodo nero, nerissimo, della crisi.
LEGGI ANCHE: Amazon Go: ecco come sarà il supermercato del futuro
LE CAUSE DEL DISASTRO. Ma dove ricercare le cause di una moria di vacche grasse che, almeno a partire a dal 2008, sta decimando i grandi gruppi americani? Di certo una gestione finanziaria troppo aggressiva e speculatrice ha fatto collassare su se stesso il sistema. Oltre a questo, non bisogna tralasciare l’opera di criminali senza scrupoli che si sono arricchiti a dismisura truffando i risparmiatori. È il caso di Bernard Madoff, conosciuto come Jewish Bond, autore di quella che è probabilmente la truffa più grande della storia. Basato su uno schema Ponzi (dal noto truffatore italiano che negli anni ’20 mise in atto per primo questa modalità di crimine), il raggiro di Madoff aveva causato un ammanco di 65 miliardi di dollari ed è stato tra le scintille della crisi. Madoff sta pagando per i suoi reati e passerà il resto della sua vita in prigione, a giudicare dai 150 anni di galera che gli sono stati comminati. Ma anche con questo pericoloso truffatore in carcere, le imprese americane hanno continuato la loro moria, per diverse ragioni. Prima fra tutte, l’incapacità di adattarsi a un mercato tecnologico in continua evoluzione. Vedi Blockbuster, l’azienda distributrice di vhs per eccellenza, costretta al fallimento nel 2013 a causa, soprattutto, del tramonto delle videocassette. Tornando a Toys “R” Us, invece, possiamo analizzare un altro germe delle difficoltà per le aziende americane, il non essersi saputi adattare correttamente alla diffusione dell’e-commerce. Con Amazon, Ali Express, Alibaba ed eBay che conquistano sempre più il favore degli acquirenti, le imprese di vecchio stampo stanno perdendo terreno. Inoltre, a causa specialmente della globalizzazione di cui proprio gli americani sono stati fautori principali, le merci provenienti dall’Asia stanno invadendo gli Stati Uniti, causando perdite talvolta gravi. Senza scomodare quella implosione inevitabile del capitalismo prevista da alcune dottrine, è innegabile che da questo punto di vista gli Usa si siano creati da soli alcuni dei problemi che oggi fronteggiano in campo economico. Così, la politica ha fatto leva sul desiderio di questa nazione di rimanere (o ritornare) grande, e i cittadini statunitensi hanno dato fiducia a Trump, che con la promessa di “Make America great again”, sta cercando di combattere, a via di dazi e protezionismo, quell’economia mondiale creata dagli stessi governi statunitensi. Ma è davvero questa la soluzione?