Immaginiamo la tranquilla quiete di un sobborgo rurale italiano. Immaginiamo la serena quotidianità di un tredicenne lungo il difficile cammino della crescita. Immaginiamo, allo stesso modo. la feroce realtà della Sicilia degli anni Novanta, quando lo Stato e Cosa Nostra erano apertamente in guerra sul territorio dell’isola più bella del mondo. Una guerra cruenta, che ha lasciato sul campo molte vittime innocenti, legate direttamente o indirettamente a questa o quella famiglia mafiosa o semplicemente con la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. In “Sicilian Ghost Story”, firmato dai registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, è concentrata questa realtà, questo segmento di storia. Una fatica cinematografica capace di strappare ben dieci minuti di applausi all’esigente pubblico del Festival di Cannes dove il film ha debuttato nel maggio dello scorso anno.
IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI. Se si dovesse indicare il protagonista indiscusso di questo film, l’osservatore attento risponderebbe senza dubbio il silenzio. Un silenzio solido, avvolgente, drammatico, quello dipinto dai due registi. Un silenzio che coincide con lo sgomento dell’osservatore di fronte alla brutale crudeltà dei rapitori di Giuseppe Di Matteo, emblema di una cultura sorretta dai sinistri pilastri dell’omertà e della violenza di una mafia non ancora debellata dal territorio siciliano. Quella mafia che ha strappato un adolescente dalle braccia della sua famiglia, dall’affetto dei suoi amici e dall’amore di Luna, la co-protagonista della storia narrata nel film. Quella mafia che commette forse il crimine più grande, rubare i sogni di una generazione che non ne vuole sapere di arrendersi alla rassegnazione, una generazione ribelle e indomita cristallizzata nel dualismo tra Luna e la madre. Una figura austera che prova a dissuadere la figlia dai suoi propositi di ricerca dopo il rapimento dell’amato Giuseppe, propositi che la portano a scontrarsi contro il resto di una comunità che preferisce l’omertà ed il quieto vivere alla sete di giustizia. Sullo sfondo si stagliano l’amore e la libertà. L’amore innocente di due ragazzini che è costretto a spezzarsi di fronte alla malvagità dell’animo umano ed il desiderio insaziabile di libertà rappresentato dalla civetta che segue i due protagonisti in moltissime scene del film. C’è poi la metafora del bosco, una selva fitta ed impenetrabile come i sentimenti che si agitano nell’animo umano, il bosco dove Luna e Giuseppe si perdono per poi ritrovarsi in uno scenario dai contorni onirici del sogno. “Sicilian Ghost Story” finisce al cospetto dell’immensità del mare alle cui onde inesauste Luna ed i suoi nuovi amici affidano sogni e speranze, circondati dal rumore delle risa e della risacca per scacciare quel maledetto silenzio, per non dimenticare che “ogni volta che c’è un momento di silenzio nasce un mafioso”.
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LE PERVERSE RAGIONI DI UNA TRAGEDIA. Il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo è forse uno dei casi di cronaca nera legato a Cosa Nostra tra i più noti a causa della brutalità e dell’efferatezza con cui la vicenda si è consumata. Gli aguzzini di Giuseppe, rapito nel 1993 e trucidato dopo quasi 3 anni di prigionia, furono Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Brusca, in particolare, si è sempre vantato dell’incredibile numero di omicidi ordinati o commessi in prima persona che oscillano tra i 150 ed i 200, così tanti che nemmeno lui stesso dice di ricordarne l’esatta entità. Il piccolo Giuseppe rappresenta l’ennesima vittima innocente di un sistema criminale e perverso. Giuseppe era figlio di Santino Di Matteo, detto “Mezzanasca”, mafioso che dopo l’arresto decise di collaborare con le forze dell’ordine per chiarire le responsabilità sulla strage di Capaci e sull’omicidio dell’esattore Ignazio Di Salvo in cui lo stesso Brusca fu coinvolto in prima persona. Il piccolo Giuseppe fu rapito proprio per tappare la bocca al padre costringendolo ad interrompere la sua collaborazione con gli inquirenti. Il rapimento avvenne in un maneggio di Piana Degli Albanesi dove il ragazzo era solito seguire dei corsi di equitazione. Il commando guidato da Brusca si presentò travestito da agenti della Dia e prelevò il ragazzo con la scusa di portarlo dal padre. In realtà dal 23 novembre 1993 fino all’11 gennaio del 1996 Giuseppe subì una durissima prigionia che lo portò ad essere segregato in diverse masserie dismesse della campagna siciliana prima di essere infine strangolato e sciolto nell’acido come ritorsione nei confronti del padre. La vicenda in questione rimane purtroppo una macchia indelebile nella storia di una terra che non meritava e non merita di essere tenuta sotto scacco da un manipolo di vigliacchi che continua ad infangarne la nomea con i propri gesti inconsulti ed esecrabili.